Conosciamo Alessandro Moscè e la sua opera in poesia e in prosa, ma anche le sue digressioni critiche in particolare sul Novecento italiano. In ogni genere e stile dei suoi scritti, predomina ciò che gli sta più a cuore, ciò a cui non rinuncerebbe mai, che rispecchia una sicurezza ideale: il sigillo degli affetti, dei suoi “fantasmi” nel sentimento ritrovato. Sentimento per i nonni, per il padre, per l’adolescenza, per un campione di calcio, per Fabriano e Ancona, per i giardini pubblici, luoghi esistenziali, come ha dichiarato, meditativi, metafisici. E’ un’idea di libertà, quella di Moscè, non condizionato dalla retorica ideologica. Idea connessa alle passioni che nascono da bambini e che da adulti si fanno atto di volontà. Per sempre vivi (Pellegrini, 2024), l’ultima raccolta poetica nella bellissima collana diretta da Tiziano Broggiato, mantiene un’intensità espressivain bilico tra il presente da testimone del tempo e il passato in chiaroscuro, compresi il tormento per la malattia dell’infanzia,fortunatamente superata, ela scoperta dell’eros, dello stupore e del piacere, assecondando gesti spontanei. “Sei regina che si sdraia di fianco / sei della razza di chi non ha paura di spogliarsi / della cinta bucata dell’anima”. O più esplicitamente: “Una mano cerca l’altra / e per questa pazza lanciarla lontano / vuol dire tirarsela contro / sapendo cosa desidera addosso”. Non sappiamo se la morte, uno dei sostantivi più ricorrenti, sia un’ossessione, una vecchia paura, o se Moscè nutra consapevolmente il fascino misterioso oltre il contingente, lasciando che una ferita oscura sia rivestita di vivida immaginazione. Sappiamo senz’altro che la morte erompe nella psiche, perché come scrive Mario Famularo nella prefazione, replicando Rilke, “la morte è grande”. Se quel “vivi”contiene una forza esortativa, Moscè contrasta il vuoto dell’anima con la conciliazione umana che si nutre del bene e della malinconia del ricordo: “Tutti vorremmo che fosse qui ogni morto / tutto il ritmo dei corpi vitali / e non una recita, non un breve racconto / non un millennio in un foglio stracciato”. Moscèestrae le radici del secondo Novecento certificando l’autenticità della parola poetica, come è stato più volte puntualizzato dai suoi critici. E’ un poeta nato negli anni Sessanta che ha scelto, giovanissimo, i suoi maestri: Gatto, Penna, Caproni, Sereni. I versi sonosospesi nei limiti dell’io e nella vocazione del noi, nel vortice lirico che ingloba la storia della gentecomune e l’onestà intellettuale fluttuata tra la lingua e la figurazione. Accogliamo in pieno la convinzione di Tiziano Broggiato nella nota di copertina di Per sempre vivi: “Un percorso di vita e di poesia costellato da profonde rarefazioni in cui si sovrappongono il fiato corto della possibile resa e la consapevolezza, poi, di una conquistata, fortemente voluta trasfigurazione”. Nella sezione “Dialoghi con mio padre” Moscè chiede di sapere di Dio, spingendosi anche oltre la morte. Il colloquio visionario ai piedi di una montagna sacra lo rimanda alla vita terrena, nell’impossibilità di far propria una verità suprema, un punto di resistenza inattaccabile. E’ qui che il significato diventa necessario, seppure impenetrabile.Moscè fa dire al padre: “Cammino in un grande giardino e la stagione è fresca. Le colombe sfrecciano in cielo, bianchissime”.
Eliza Macadan