Guarracinismi tra antico e odierno

PENSANDO A NAPOLI (PER RICORDARE LUCIANO DE CRESCENZO) – “Napoli mi manca sempre tanto e mi manca anche quando sono a Napoli. Napoli è più forte dei suoi abitanti, può cadere ma si rialza sempre. In questo mondo in cui il progresso sembra prendere il sopravvento su tutto, in cui le città sono sempre più simili le une alle altre, Napoli è l’unico luogo che riesce a mantenere intatta la propria identità.
Una copia di Napoli non potrà mai esistere, per questo è l’ultima speranza che abbiamo”.

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Sulla “Società del pieno” – “Confine spostato calcolato confuso / Limite /despoti  inesperti / poeti incapaci / beati in fretta e furia conclamati / neppure loro sanno: / bontà impolverata sperduta / tra strade case di città inospitali / fruga ignorata derisa / tra scarti di cucina / piange.//Si sfamerebbero tutti. / Bello sarebbe assumere la colpa./ Carità malaticcia dissoda / terra  troppo secca / sentire / sviato dalla mente / tratto di matita sottolinea l’errore / fa di conto./ Esempio di pochi / quasi zero nella ingorda / civiltà del pieno.” (Fausta Squatriti, Olio santo, 2010-2016, con prefazione di Mariella De Santis, NewPress 2017)

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IL PIETROSO FINITO – “Sul destino da riservare ai celesti / oltre il pietroso finito della terra / non c’è intesa tra gli umani / nell’atto di sottrarsi all’apparenza / né si placa tra i divini la contesa / per bandire il vuoto del giardino” (FLAVIO ERMINI, Edeniche, Moretti&Vitali 2019)

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DOMENICHE PERICOLOSE – Molto ha scritto e fatto scrivere, Giovanni Lischio, prima di approdare presso un editore come Macchione di Varese a questo giallo bipartito, Le domeniche pericolose. Le coppie, specialmente, che conclude una trilogia iniziata qualche anno addietro, nel ’13, con Il lato maggiore e proseguita nel ’15 Finché morte…(mentre nel cassetto un altro ancora aspetta, forse il più interessante, La ragazza col cane in spalla). Senza contare acrostici, aforismi, i “giochi” di parole (penso a una serie godibilissima di “ritratti” di animali in versi, anche questa ancora inedita e intitolata “Dalla a alla zebra”). Dicevo fatto scrivere, perché Giovanni è uno che, per una vita intera spesa nella scuola, pubblica e privata (per molti anni, ha insegnato anche al Gallio), lo stipendio se l’è guadagnato “divertendosi” con le legioni di studenti affidati alle sue cure, insegnando loro a scrivere, a creare, a essere insomma se stessi.

Ma come c’è di così singolare nel libro, Le domeniche pericolose. Le coppie, specialmente, da prestarsi per parlare dell’autore? Ci sono due problemi di stringente attualità, qui sul lago, da noi, ma anche altrove: c’è il mondo delle badanti, provenienti dall’est, con la loro difficile integrazione, nel primo, e le infiltrazioni mafiose nel Comasco, nel secondo, il tutto su uno scenario apparentemente placido e incantato, un piccolo mondo di ordinaria quotidianità, quale è il lago nel versante che dal Triangolo Lariano guarda Lecco e propriamente i paesi di Onno-Limonta-Oliveto.

È proprio qui che Lischio va ambientando ormai da tempo le sue storie, indagando e scovando, attraverso l’acume di un giornalista-detective particolare, Lorenzo Melori, i lati più oscuri della vita (e della psiche) dei suoi abitanti: storie ambigue e inquietanti, vicende di personaggi apparentemente comuni, vittime di azioni a volte inspiegabili se non con raptus di follia.

Scrittore in versi e in prosa, dunque, uno che ha attraversato e sperimentato molti linguaggi, restando sostanzialmente candido, “fanciullino”, con la capacità di giocare con le parole, di investirsi nel sapere degli altri, Giovanni Lischio: uno che, in virtù anche di una vita spesa nel grande arengo della scuola, l’avrebbero definito polytropon (nel latino di Andronico, versutum, dalle molteplici applicazioni e competenze). Versatile, insomma: narratore, comunicatore e soprattutto poeta, nel suo senso più ampio di creatore di linguaggio e capace di dialogare con semplicità e candore con giovani e meno giovani.

Uno che letteralmente “molto ha conosciuto”, attraversando e praticando innumerevoli territori, con la mente e col cuore, sfidando con la scrittura luoghi comuni e pregiudizi, sempre fedele a una propria riconoscibile cifra esistenziale e intellettuale, che si può pressappoco riassumere e condensare così, una visione della vita generosa e aperta a una intelligenza delle cose senza illusioni, per sé e per gli altri.

 

Vincenzo GUARRACINO, poeta, critico letterario e d’arte, traduttore, è nato a Ceraso (SA) nel 1948 e vive a Como.

Ha pubblicato, in poesia, le raccolte Gli gnomi del verso (1979), Dieci inverni (1989), Grilli e spilli (1998), Una visione elementare (2005); Nel nome del Padre (2008); Ballate di attese e di nulla (2010).

Per la saggistica, ha pubblicato Guida alla lettura di Verga (1986), Guida alla lettura di Leopardi (1987 e 1998) e le edizioni critiche di opere di Giovanni Verga (I Malavoglia, 1989, Mastro-don Gesualdo, 1990, Novelle, 1991) e di Giacomo Leopardi (Diario del primo amore e altre prose autobiografiche, 1998).

Oltre ciò, l’edizione dell’autografo comasco dell’Appressamento della morte (1993 e 1998), e l’antologia Giacomo Leopardi. Canti e Pensieri, 2005.

Ha inoltre curato il carteggio Leopardi-Ranieri (Addio, anima mia, 2003), il romanzo di Antonio Ranieri, Ginevra o l’orfana della Nunziata (2006), le novelle milanesi di Verga Per le vie, 2008, Libro delle preghiere muliebri di Vittorio Imbriani (2009) e Amori di Carlo Dossi (2010).

Ha curato le traduzioni dei Lirici greci (1991 e 2009), dei Poeti latini (1993), dei Carmi di Catullo (1986 e 2005), dei Versi aurei di Pitagora (1988 e 2005), dei versi latini di A.Rimbaud, Tu vates eris (1988), dei Canti Spirituali di Ildegarda di Bingen (1996), del Poema sulla Natura di Parmenide (2006) e l’antologia Poeti Latini cristiani dei primi secoli (2017).

Guarracinismi tra antico e odierno

UN OMAGGIO AD ANDREA CAMILLERI  – “Ha compiuto il prodigio di essere nel contempo uno scrittore autenticamente popolare, un artista vero e l’ultimo intellettuale, capace di parlare non solo di letteratura, ma del mondo, l’unico sopravvissuto dopo la morte di Sciascia e di Pasolini. E una cosa purtroppo è certa: con lui muore una possibilità di essere scrittori e intellettuali insieme, con lui il Novecento è davvero finito” (ROMANO LUPERINI, Per Camilleri, intellettuale militante, su Laletteraturaenoi)

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Ancora un omaggio ad Andrea Camilleri – “La cecità mi risparmia di vedere la mia faccia”, diceva Camilleri in “Tiresia”. Negli occhi di un cieco, che sia di Chio o di Porto Empedocle, è scolpito il futuro. Parola di Alberto Granese, storico ordinario dell’Università di Salerno

 

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Il prof cilentano di latino e greco di Andrea Camilleri – Il professore di latino e greco di Andrea Camilleri, al liceo classico Empedocle di Agrigento, era un cilentano. Si chiamava Antonio De Marino: io l’ho conosciuto e frequentato. Era nato a Castelnuovo Cilento il 26 marzo 1915. Primogenito di una famiglia benestante, grazie ai sacrifici del padre – emigrato negli Stati Uniti e dal quale riceve un’educazione moderna e democratica, attenta ai problemi sociali e politici – studia al liceo di Vallo della Lucania e poi all’Università di Napoli, laureandosi il 24 novembre del 1939. Fa domanda di insegnamento e viene destinato al Liceo classico Empedocle di Agrigento per insegnare latino e greco. Tra gli allievi di allora c’è anche un giovane promettente che viene dalla provincia, Porto Empedocle, dove è nato nel 1925. Andrea Camilleri, dopo una breve esperienza in collegio, si iscrive al Liceo Empedocle e grazie all’insegnamento, tra gli altri, del professore De Marino, nel 1943 consegue la maturità classica. In seguito il professor De Marino scopre con gioia quasi paterna che quel suo alunno è diventato uno scrittore, che, con i suoi libri, parla non solo all’Italia, ma al mondo. Con Camilleri e con altri alunni negli anni successivi De Marino intrattiene una lunga corrispondenza – come assicura la figlia, Elvira, direttrice del Reparto di Oncologia dell’ospedale di Vercelli e nota conferenziera. Comunista, Antonio De Marino collabora con diverse testate e scrive articoli di denunzia sociale e politica, schierandosi dalla parte degli ultimi, contro i sindaci democristiani e i padroni. Memorabile un suo articolo del 1946 sulla testata comunista «Il Gallo» intitolato Castelnuovo Cilento: feudalità e miseria. Muore a Napoli il 16 luglio 2006 ed è sepolto nel cimitero di Castelnuovo Cilento.

(ringrazio l’autore dell’articolo, lo scrittore e giornalista GIUSEPPE GALZERANO, che mi ha concesso di poter utilizzare il suo articolo, comparso sul quotidiano di Salerno La città)

 

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Su questo mare schiacciato da bonacce / galleggiano ingavonate sulla dritta / le snelle navi che sfidavano i venti / con braccia e mani salde sul timone. / Barche a tòrzo lasciate alla deriva / senza più vele, senz’alberi maestri, / vuoti scafi protetti dal fasciame / per scarrocciare a lungo in naufragio” (FRANCESCO BELLUOMINI, Ultima vela, Samuele Editore 2018).

 

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Ancora su LIMESLimes è, certo, etimologicamente, nell’osco, un “limite”, un “confine”, ma è anche un luogo, un segno, un “bordo”, da cui ci sporge, avanti o indietro: una possibilità da cui porsi domande e muovere passi. Una situazione dunque quanto mai delicata e importante: si può restare indifferenti a ciò, a meno di non voler resta in limo, nel fango dell’indifferenza e dell’ignavia?

 

Vincenzo GUARRACINO, poeta, critico letterario e d’arte, traduttore, è nato a Ceraso (SA) nel 1948 e vive a Como.

Ha pubblicato, in poesia, le raccolte Gli gnomi del verso (1979), Dieci inverni (1989), Grilli e spilli (1998), Una visione elementare (2005); Nel nome del Padre (2008); Ballate di attese e di nulla (2010).

Per la saggistica, ha pubblicato Guida alla lettura di Verga (1986), Guida alla lettura di Leopardi (1987 e 1998) e le edizioni critiche di opere di Giovanni Verga (I Malavoglia, 1989, Mastro-don Gesualdo, 1990, Novelle, 1991) e di Giacomo Leopardi (Diario del primo amore e altre prose autobiografiche, 1998).

Oltre ciò, l’edizione dell’autografo comasco dell’Appressamento della morte (1993 e 1998), e l’antologia Giacomo Leopardi. Canti e Pensieri, 2005.

Ha inoltre curato il carteggio Leopardi-Ranieri (Addio, anima mia, 2003), il romanzo di Antonio Ranieri, Ginevra o l’orfana della Nunziata (2006), le novelle milanesi di Verga Per le vie, 2008, Libro delle preghiere muliebri di Vittorio Imbriani (2009) e Amori di Carlo Dossi (2010).

Ha curato le traduzioni dei Lirici greci (1991 e 2009), dei Poeti latini (1993), dei Carmi di Catullo (1986 e 2005), dei Versi aurei di Pitagora (1988 e 2005), dei versi latini di A.Rimbaud, Tu vates eris (1988), dei Canti Spirituali di Ildegarda di Bingen (1996), del Poema sulla Natura di Parmenide (2006) e l’antologia Poeti Latini cristiani dei primi secoli (2017).

La Luna

Il gigante

restava nell’ombra.

La sonda spaziale

non l’aveva sfiorato.

Vestiva elegante

con charme naturale

e antiquato.

Pregava,

il gigante pregava.

A un tratto

una stella vicina

lo morse:

Cristallo di genio

gli disse

tu mediti forse

se a fare fortuna

sarà suficiente

la luna?

Si volse,

il gigante si volse.

Cristallo di donna

rispose

non medito niente.

Per fare fortuna

è già

sufficiente

la luna.

La stella

guardava per terra.

Il gigante

guardava la luna.

 

(da “Le allegre carte”, Fabrizio Dall’Aglio, Valigie Rosse, 2017)

Nina NASILLI – Tre inediti

vólti lacerti

 

e siamo vólti lacerti

insicuri

anche dell’ombra

nel caso di notte

 

ma le valve ignare

del verso dell’onda

non temono

di farsi anche duna

coi rami franti e i sassi

e i sassi ai rami inserti

 

una distesa di sabbia: una duna

lì, sulla spiaggia incolta

– duna di valve, rami franti

sassi e sassi ai rami inserti

 

non teme Natura

un peso di giudizio

e siamo noi, gli incerti

del cosmo

fatti col sale del pavore

a gravare la sua nobile indifferenza

della nostra grandiosa inutilità

 

e intanto io non so

(e non lo so dire)

come trascorrano gli anni

 

 

de la terra

 

(a caschémo, in tèra

cofà e fòje, e su chéa tèra ea pianta

ea resta, in tèra: vèrta)

e de-cidiamo come le foglie

sulla terra, e la pianta resta

e si staglia

 

un brano di sole

altrove che splende

senza abbagliare, e scalda

tra le zolle bruno-soffice di questa terra

arata, La Calpestata:

è lì che vi germoglia infine un rinnovato eterno

– un virgulto d’eterno –

che è l’ala agile di un passero sorpreso

(pare minore, eppure è perfetto)

 

e tutto il verde che non appare

celebra

in silenzio

la festa del proprio compimento

 

nasceva dall’ombra
dolce
anche la nostra bellezza interiore
al buio
questo im-perfetto – era anfratto – di un bosco
dove le foglie quasi s’involavano
a cielo
– ma fermo, tutto

un campo d’autunno sottraeva all’azzurro
la chiarità della luce e vi poneva sul dorso

un incanto

d’ambra olivastra e scintille brevi d’oro brunito:

il cielo dissolto
non vi opponeva la sua divina resistenza

lì grado a grado si ergeva
nel volo sorpreso d’attesa
un canto
nero, una sommessa preghiera
protetta dalla delizia del suo prezioso manto

bisbigliavano tra loro le frasche
pudiche
soltanto, tenue
un cenno di cinguettio alludeva alla gioia tenera

del sole che non era a giorno
e neppure sera

la nebbia, coltre di silenzio e pace
imbeveva dal muschio l’antro molle
e caldo che ci custodiva
mentre il tuo respiro alato
concepiva fondando
il nostro glorioso mistero

 

 

ché tra gli altri talenti

non la lingua o l’arte taumaturga

ma il dono della profezia

sposa la terra

desiderata

al suo Nome perpetuo

 

congedo

 

(lontano, un balzo di balena al largo

nessuno lo sa, resta morto

anche il mare

ma, se lo dici, anche piano, io lo vedo

o lo posso sognare)

 

dell’imbarcazione che solca le onde

intuire la forma

per la luce che la riluce e la splende

e un baluginio qua e là ne tocca

qualche dettaglio

un rostro, un paranco, una cromatura

che assapora il moderno

o del legno di miele o rosso

una lucida levigatura

una modanatura

ma senza esperienza alcuna

della barca, che non esiste

eppure è viva sul mare che sta arando

con la sua schiuma l’onda che incontra

e il ritorno dell’onda se non deborda

 

e ha premura di porto, perché lo sa

come Ulisse lo sa

che senza approdo non si riparte

e riposa il navigante

sfama la sua parte sociale

in un illuso istante amicale

che si aggruma attorno al brodo

col pane

 

ma è solitario ogni viandante

(lo è il poeta in scrittura

che non si ferma: o si perde

tra i rumori rumorosi degli altri

i baccani

i pettegolezzi

i rovi dell’inutilità quotidiana

questa agitata vanità, con le spine)

 

tra le mani la penna, il timone

l’impronta accaldata della pelle

di chi ieri ti dormiva accanto

© Nina Nasilli

 

           © Renzo Carnio

Nina Nasilli vive e lavora a Padova, dove si è laureata in Lettere classiche e ha avviato il laboratorio-studio “Atelier Interno 7”.

Ha pubblicato i libri di poesia: Imperfezioni moleste. E oltre (Il Prato, 2008), TRA.DIS.CO trame di disprezzo coerente e licantropo (Book Editore, 2010), Oasi criptate (con M. Gadenz e P. Garofalo, Il Foglio Letterario, 2012), Parabola d’amore (racconto in versi per il teatro, Book Editore, 2012), al buio dei nodi anfratti (Book Editore, 2016, Premio Internazionale di Poesia “Città di Marineo 2016”) e Tàşighe!, in dialetto veneto (Book Editore, 2017, 2a ed. 2018, Premio speciale del pubblico “Premio Pontedilegno” 2018, vincitore del “Premio San Vito al Tagliamento” 2018-19). Per i tipi di Book Editore è in corso di pubblicazione il volume di poesia Prossimità, la cui uscita è prevista per l’autunno 2019. Ha curato, tradotto dal latino e illustrato con 50 disegni originali il volume Dittochaeon (Doppio Nutrimento) di Aurelio Clemente Prudenzio (Biblioteca della Fondazione “Pina Giuffrè”, Book Editore 2018).

è pittrice e ha tenuto importanti mostre in Italia e all’estero.

Per la sua attività artistica e poetica ha ricevuto riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui, nel 2013, il Premio ciceroniano “Città di Arpino”.

Ha al suo attivo diverse pubblicazioni d’arte: dalle raffinate edizioni del “Pulcinoelefante” e delle “Edizioni del Nido” ai libri artistici So che sei bella, anima mia! (Il Prato, 2008) e Uovo nudo (Book Editore, 2013), alla cartella d’arte Il cielo oggi non sta in piedi (Book Editore & Stamperia Barbato, Venezia, 2014).

Dirige per Book Editore la Collana d’arte “parolatracciaparola” e la Biblioteca del Vernacolo “foglie e radici”.

Guarracinismi tra antico e odierno

Di poche e minime cose ha bisogno per far poesia, Ernesto Ciorra: ha bisogno di incontri e presenze, anche occasionali, di familiari, amici e conoscenti, di sogni e bisogni, di ricordi e speranze. Una poesia esistenziale, dunque, fatta di attimi e dettagli: la vita come alimento e fonte di ispirazione primaria, nel cui teatro figure familiari essenziali stagliano e armonizzano la loro “domestica meraviglia” con molti altri (donne, uomini e perfino animali), componendo un universo via via più vasto in una rappresentazione con al suo centro la figura del poeta “mendicante d’amore” proteso ad incarnare un modello del tutto atipico, quello di “puer ingenuus” e insieme di manager illuminato, che all’interno del mondo del lavoro porta un’etica assolutamente diversa fatta di efficientismo e al tempo stesso di disposizione filantropica e altruistica. Il tutto su scenari paesaggistici quanto mai vasti e dai confini dilatati, luoghi dell’anima e della mente (Roma, Milano coi navigli, i laghi lombardi) ma anche luoghi dell’impegno e del lavoro (il fiordo norvegese di Hardanger, New York, San Francisco, Los Angeles, la Russia).

 

È così che Ciorra si riscatta dal grigiore e dalla ripetitività delle sue mansioni di imprenditore: attraverso la scrittura, condensata in un libro dal titolo emblematico, Il pane dei sogni ( NewPress, Como 2017), come esperienza di un atteggiamento etico, incurante di oscillare tra parlato e aulicità nell’elaborare un proprio peculiare modo di intendere i rapporti con gli altri.

Senza cioè rinunciare all’immediatezza e sincerità emozionale, nella messa in gioco di sé, di fronte al miracolo dell’esistenza, bella o amara che sia, allo stupore “per i colori  del tramonto, dell’alba e della vita”, e nello stesso tempo costruirsi intorno una comunità di spiriti fraterni, una sorta di “social catena”, da coinvolgere nell’”incendio” valoriale della propria vita al servizio della collettività (dal ruolo di Direttore Innovazione e Sostenibilità del Gruppo Enel).

Allineando una galleria di figure, tra le quali trovano spazio poeti (Sandro Penna, Alda Merini, Lorenzo Mullon), ma anche attori, dirigenti d’azienda, marginali e disperati, e soprattutto loro, la Madre, il Padre, la moglie Barbara, i Figli, tutti i perni insomma della sua vita: non manca, nemmeno Dio. Tutto all’insegna di un sentimento dichiarato con il candore di chi mira alla sostanza più che al galateo espressivo.

Accomiatandosi, in un ultima menzione di tutti i volti incontrati e delle grazie ricevute nel cammino, Ciorra ci congeda con un viatico e un’esortazione: “lascia che il pane dei sogni cada / per terra e che possa sfamare / la solitudine”. Una grande lezione, davvero.

 

 

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Canto senegalese a Lampedusa – “Mare mare /fammi passare //Il mare è aperto /come il deserto /quando è piatto /ci puoi camminare //Il mare cambia /come cambia il vento /ma è il terzo giorno /e non si vuole calmare // Mare mare mare /fammi passare //C’è un’isola – hanno detto – /in mezzo al mare /la luna ci vuole accompagnare //Luna luna /portami fortuna /terra terra /non m’ingannare //Mamma, oh mamma! /Il mare è grande /- tu me lo dicevi -/ma indietro non posso tornare //Mamma mamma /il mare è fondo /ma ora piglia sonno /c’è un’isola – hanno detto – in mezzo al mare /la luna è grande /e ci vuole accompagnare /piglia sonno e non mi pensare. //Mare mare fammi passare /indietro non posso tornare. //Indietro non posso tornare!” (Corrado Calabrò, Quinta dimensione, Mondadori 2018)

 

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Dal mare ai laghi – “DI LEGNO E DI CARTA” si intitola la mostra che si inaugura sabato 20 luglio al Museo della tornitura del legno, in via Vittorio Veneto, a Pettenasco (No), un paesino situato sulle rive del Lago d’Orta, un paradiso di azzurro e verde, dove si possono ammirare le opere delle artiste Sissi Sardone e Donatella Strada fino al 14 settembre. Nello spazio poi del Brunitoio, a Panizza di Ghiffa, una straordinaria mostra, curata da Vera Agosti, di Franco Rognoni, di cui mi piace ricordare una puntasecca dall’atmosfera viennese, dedicata a una figura misteriosa e maligna, una femme fatale, che ritroviamo in una poesia di Roberto Sanesi, Interacte.

 

 

Vincenzo GUARRACINO, poeta, critico letterario e d’arte, traduttore, è nato a Ceraso (SA) nel 1948 e vive a Como.

Ha pubblicato, in poesia, le raccolte Gli gnomi del verso (1979), Dieci inverni (1989), Grilli e spilli (1998), Una visione elementare (2005); Nel nome del Padre (2008); Ballate di attese e di nulla (2010).

Per la saggistica, ha pubblicato Guida alla lettura di Verga (1986), Guida alla lettura di Leopardi (1987 e 1998) e le edizioni critiche di opere di Giovanni Verga (I Malavoglia, 1989, Mastro-don Gesualdo, 1990, Novelle, 1991) e di Giacomo Leopardi (Diario del primo amore e altre prose autobiografiche, 1998).

Oltre ciò, l’edizione dell’autografo comasco dell’Appressamento della morte (1993 e 1998), e l’antologia Giacomo Leopardi. Canti e Pensieri, 2005.

Ha inoltre curato il carteggio Leopardi-Ranieri (Addio, anima mia, 2003), il romanzo di Antonio Ranieri, Ginevra o l’orfana della Nunziata (2006), le novelle milanesi di Verga Per le vie, 2008, Libro delle preghiere muliebri di Vittorio Imbriani (2009) e Amori di Carlo Dossi (2010).

Ha curato le traduzioni dei Lirici greci (1991 e 2009), dei Poeti latini (1993), dei Carmi di Catullo (1986 e 2005), dei Versi aurei di Pitagora (1988 e 2005), dei versi latini di A.Rimbaud, Tu vates eris (1988), dei Canti Spirituali di Ildegarda di Bingen (1996), del Poema sulla Natura di Parmenide (2006) e l’antologia Poeti Latini cristiani dei primi secoli (2017).

Lucia TRIOLO, Dedica, Edizioni DrawUp, 2019

Ogni volta che Lucia Triolo mette mano alla penna è come se scrivesse sempre per la prima volta apprendendo logopedicamente il prodigio di essere nel compito estremo della parola: nella sua precisione e nel rischio di una mancanza di controllo, poiché conscio e inconscio, come ci insegna la psicanalisi a più riprese, coabitano nel verbo, ma proprio il rischio aumenta la chiamata alla salvezza. (…)Nell’affanno che si coglie troviamo due poli che lo simboleggiano: il femminile – da sempre il tema profondo della poetessa – e la sicilianità declinata in quella vocazione alla giustizia non legata grecamente alla verità. L’impegno alla parola dischiude orizzonti differenti che s’incistano tra di loro determinando l’impegno dell’io a inoltrarsi nel verbo, sapendo di non poter mai coincidere con esso. Mi pare evidente la prospettiva fenomenologica che da un lato vede l’impossibilità di una relazione e dall’altro la esige così come il sale è necessario al fascino del mare anche se brucia le ferite e nel contempo le cauterizza.

(dalla prefazione di Giuseppe Cerbino)

 

Lucida follia

In punto di lucida follia

mentre stringo tra le mani

uno scheletrico io

e scarico una lacrima in latrina

riesco a dire esattamente

ciò che penso

 

inconcepibile come una gaffe

 

La mia parola

Non c’è scatto che non le appartenga

ho messo la parola

a lottare con la vita

a rabberciarla

come un tessuto vecchio lacero

sporco.

L’ho vista slogarsi per afferrarla

nel precipizio in cui l’io-sono non penetra

nella parola e testardo

non vuole essere-detto

ma nessuna fuga

può essere concessa

 

L’insolenza del silenzio

non cambia la circolazione:

in qualunque stagione a casa

ci si riposa

 

Litanie

Non ho tralasciato nulla

ho chiesto aiuto

rifugiata in antiche litanie

ho invocato i santi della sicurezza

ho invocato i santi della mediocrità

ho invocato i santi dell’infingardaggine

quelli della fatica e del dolore

e del peccato e della miseria.

E poi i santi del vuoto e del nome

Ho trovato una caramella

tra macerie

l’ho scartata

insaziabile

zanzara

ronzava

dentro le litanie

la gioia sembra non

abbia santi né tabernacoli

-questione di profondità

credo

 

Scrivo

Scrivo a rovescio sulla pelle

vivo a rovescio questa vita

come chi non ha più carne

da redimere

tengo le ossa sotto

i passi

lo spirito fa ancora rumore

 

una persiana sbatte sbatte

mi fa arrossire

 

© Lucia Triolo

Lucia Triolo è nata e vive a Palermo, nella cui Università ha insegnato Filosofia del diritto. Ha pubblicato per la G.A Edizioni: “L’oltre me” (Maggio 2016), per le Edizioni il Fiorino: “Il tempo dell’attesa” (Maggio 2017), per La Ruota Edizioni: “E dietro le spalle gli occhi” (Febbraio 2018), per BIbliotheke Edizioni: “Metafisiche Rallentate” (Ottobre 2018). per DrawUp Edizioni: “Dedica” (Aprile 2019), ancora per La Ruota Edizioni: “Dialoghi di una vagina e delle sue lenzuola” (Maggio 2019). È presente in numerose antologie. Tra i numerosi riconoscimenti, premio Amelia Rosselli al Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Città di Conza della Campania 2018 e terza classificata al XIX Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa Guido Gozzano ed. 2018.

François Nédel Atèrre, Limite del vero, La vita felice, 2019

C’è molta descrizione di attimi, talvolta pare di assistere a un ragionamento anagogico: Littera gesta docet, quid credas allegoria. Moralis quid agas, quo tendas anagogia. Un senso morale straniante e quasi di accompagnamento, un indicare senza premere sulla ferita che le cose mostrano. Non credo di esagerare se dico che ci sono momenti di scrittura sinestetica.

(dalla postfazione di Giulio Maffii)   

 

 

Poi si va avanti, il tempo di ciascuno

è frammentario – a volte non sussiste.

Chi allegramente scompare, sparpaglia

cocci di sale nel piato degli altri

e fa del bene avaro. Per discese

chi crede di aver cuore pianta i piedi

e regge stanghe di carri pesanti

– ignora i loro gomiti, l’azzurro.

Non ha risposte il sole di novembre:

raccolti i vòlti, ripresi per caso

fili smagliati, intenzioni e parole

rinnega tutto, si consegna al freddo.

 

Invita a fare da soli, in silenzio.

 

*

 

Le strane formule stanno migrando

dal nudo vero. Silenziose, stanche

si poggiano sui cavi della luce

– ma è il cielo a darne, ed è arguto regalo.

Fanno brevissimi cenni col capo.

 

Stentano a riconoscerle figure

di uomini e donne strette nei cappotti,

dal passo svelto. La neve cancella

le vie che portano al lavoro o a casa.

 

La meraviglia si fa innanzi a pochi.

 

*

 

Era quel tempo – non si conta in anni

quando stavamo con loro. I giardini,

le case nuove, i viali nella luce.

 

Ciascuno il suo prodigio, a ogni sentiero

un salto d’acqua, una baracca vuota.

Era quanto bastava, non di meno.

 

Si è sciolto sui mattoni quell’autunno

o sulle pagine aperte dei libri:

poco di bianco, estraneo, sale in grani

le tue sembianze qui, il mio corpo vano

seduto sulle scale, com’è adesso.

 

François Nédel Atèrre (pseudonimo di Francesco Terraccia­no) è nato a Napoli, dove vive e lavora, nel 1967. È laureato in Economia e Commercio. La letteratura, contrappunto alla formazione universitaria e professionale, è costantemente al centro dei suoi interessi: lo studio della poesia europea – del modello italiano, inglese e francese così come delle significative testimonianze russe del Novecento – ha motivato la sua partecipazione a numerose iniziative, mantenendo vivo il contatto con una realtà complessa e in continua evoluzione. Ha pubblicato una raccolta di poesie, Phonè (1992) e un volume di racconti, Il Salice Bianco (1993), entrambi con lo pseudonimo di Francesco Miti. Numerose le sue collaborazioni con riviste letterarie e le partecipazioni a progetti editoriali, rassegne e seminari.  Del 2018 è la raccolta poetica “Mistica del quotidiano”, Terra d’Ulivi edizioni. Le sue poesie sono state tradotte in romeno e inglese.

Federico PREZIOSI – Tre inediti

Fingi il lessico delle parole astruse

io ci metto il fard

i colpi di spazzola e l’iPhone

all’occorrenza uno stacco

una voce su una carta spieghettata

due righe su un post it.

 

Non capisci la postura

il vintage la lingerie

l’intreccio del vimini sul sacro difetto.

 

Ho disseminato ogni oggetto in un vano

senza polvere.

 

I tappeti lo sapranno dire

ne terranno conto.

 

*

 

abbracciati i detriti, commutate le organze

ho dita incrociate porgendo ai rimandi

gli annali presagi, in sostanza le vene

che il vento cospira scopandole intere.

Se nelle cancrene analgesico è il porto

l’impasse di lenzuola ha ormoni di scorta

su idiote folate, su chili di fame

sta qui reiterato il quid in cui cadi

sui segni dei seni che afferrano amplessi

sui crini dismessi che annusano i cani.

 

*

 

un attimo sciolta

tra i notturni solchi. Sul gelo

le scale assorte contemplano

quel mistico bagliore. il solo.

Si inarcano voci che nude

fagocitano piedi. Non sentono

il marmo le piante

e non vibrano gli alluci. Qualcuno

li immagina di cartapesta

con le punte disossate e vuote.

Invece nere sono come le notti

le tue bianche e le mie d’inverno.

Le ginocchia celano frutti

dietro l’inferno e in certe fiamme

mi sento consumare come

ardere le viscere del giorno.

La carne viva violenta L’acume morto!

seduta sui dissapori e le intemperie.

la muta prigione di questo anfratto

seminudo. il corpo. E il mattino

non arriva se non a sprazzi. Tumefatto

il credo cala. sulle mie chiome rase.

 

Federico Preziosi nasce ad Atripalda (Av) nel 1984. Ha studiato Musicologia e Beni musicali presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, laureandosi in Estetica e Filosofia della musica con una tesi su Béla Bartók. Suona il basso negli “Slow Motion Genocide”, con i quali ha pubblicato l’omonimo ep e un disco, Unculture.

Vive in Ungheria dove insegna lingua e cultura italiana a Budapest. Alla poesia si è avvicinato grazie all’incontro con Armando Saveriano. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, Il Beat sull’Inchiostro, slam poetry che ritrae l’odierna società utilizzando robuste dosi di sarcasmo, irriverenza e tanta schizofrenia.

Ha ottenuto alcuni importanti riconoscimenti all’interno di importanti contest nazionali.  Nel 2019, pubblica “Variazione Madre” (Controluna).

 

 

 

Alina RIZZI – Tre inediti

Nell’ora nona
calavano le ombre del giorno
si protraeva
il lavorio instancabile delle ipotesi
sotto maschere adunche
che tornavano
dopo l’assoluzione del sonno
e si disponevano
devote a riti oscuri
all’eterno mormorio sommerso.

*

Decise di ritrarsi
dai giorni liquefatti
dalle figure pensanti
che sfiancavano le notti
spalancate sul vuoto
e il silenzio più estremo.
Decise di tornare
ma rivestita di pelle
per riconoscersi ancora
in quel malore stantio
che spezzava quieto
le linee del volto.

*

Dalla cima degli anni osserva
incredula e già pentita
viandanti che non sono più tornati
da cui attendeva improbabile
un cenno d’assenso.
Ciò nonostante ora va delineando
una perfezione di gesti
oltre il rito usurato
di movimenti essenziali
liberati dal silenzio.

© Alina Rizzi

Alina Rizzi è nata a Erba (CO). Giornalista e scrittrice, si dedica da sempre a realizzare iniziative rivolte alla valorizzazione del mondo femminile. Ha vinto premi letterari e partecipato a diverse antologie, tra cui quella americana LA DOLCE VITA (Running Press). Ha pubblicato AMARE LEON da cui il regista Tinto Brass ha tratto il film “Monamour”, i romanzi PASSIONE SOSPESA e DONNE DI CUORI, COME BOVARY e SCRIVIMI D’AMORE . La drammaturgia in versi NATASCHA E IL LUPO nell’antologia IO E L’ALTRA, i volumi di racconti BAMBINO MIO e PELLE DI DONNA . In versi: ROSSOFUOCO, IL FRUTTO SILLABATO, LA DANZA MATTA , ARITMIE, e diverse plaquette. Il suo blog è costruzionivariabili.blogspot.it

 

 

 

Henry ARIEMMA, Un gallone di kerosene, Transeuropa, 2019

Amico di ogni treno preso
al caso dei giorni…
Mi dicevi non preoccuparti,
riposa, ti dico quando arrivi
su quel salotto triste tra i pochi
a rubare tempo perso
di partenze segnate,
obbligate, al calzare gli occhi
coi giornali o dalle finestre
sparire in pensieri di facce
comuni nel viaggio…
E sorridevi raccontando
dei mirtilli sui binari
che non si possono prendere
e si perdono alle nostre
sacche golose, ubriache
di questa vita a tratti
intuita davanti al riflesso
del ferro divelto nella porta,
-in fondo orinatoio dei solialle
velocità per non nascondere,
sfuggire l’arrivo quasi fermi…
A chiederci del conto per sempre
anche se pagato.

*

È un dolore che si fa
dolce nel pensiero
per chi manca adesso…
E vorremmo l’esserci
senza riuscirci…
Basta tenere stretto
nell’abbraccio il ricordo
alle parole, il sorriso ai gesti
soffici del non pesare
tare all’io cantando fiori
di questo addio che non esiste.

*

E non sei lo sfidante
nel retro quadro a giorno…
È notte per dame
inseguendo e sfuggendo
il non muoversi…
Non ci sono cavalli ne torri
per Re o regine al riparo,
terra spezzata in onore
al cerchio rotante…
Perché amico, sei attesa
e d’altra parte vuoto…

*
Sono piene mani venute incontro
al cuore nella casa del sorriso
-ti prego- rimani all’ieri
per non avere saldo volere
a parola del sogno,
braccia uguali al domani
del fare quando porta chiude
gratitudine a non esserci più.

 

Henry Ariemma è nato a Los Angeles nel 1971 e vive a Roma.
Suoi componimenti sono apparsi su riviste e litblog specializzati.
Per Ladolfi pubblicato le raccolte di poesie Aruspice nelle viscere
(2016) e Arimane (2017).