IGNOTO E POESIA – “Nessun’altra cosa attrae il vero poeta quanto l’ignoto” (Victor Korkija)
MATERIA STELLARE – “Non sono Poeta / se non per aver detto / anche materia stellare è cannibale / così i ragazzi d’una scuola in Sicilia / decisero che erano parole di Dante / / mentre io ero solamente un artista / paga del loro sovrano errore / da allora vado per il mondo e recito / sono – Poeta” (EVELINA SCHATZ, Patria lingua, ovvero Il Possibile negato, 2018)
AL DI LA’ DEL SENSO IMMEDIATO – FRANCESCO RADINO Fotografie 1968-2018 Fondazione Mudima Via Tadino 26, Milano. Francesco Radino è uno dei maestri della fotografia italiana contemporanea. Attivo da cinquant’anni in molti ambiti, dall’indagine sociale alla rappresentazione del paesaggio antropizzato, impegnato nell’elaborazione di un immaginario che parte dalla realtà ma costruisce forme raffinate e variegate stratificazioni visive, è una figura dalla creatività libera che si colloca fuori dagli schemi. Le fotografie di Francesco Radino sono intessute di pensieri e di memoria, di momenti di realtà e di frammenti di vissuto, sono animate da analogie e rimandi formali che affermano continuamente che il mondo è uno solo e la sua complessità non può essere guardata per settori separati. Così, pesci, oggetti industriali, ombre, alberi, fiori, spiagge, resti archeologici, acque, montagne, strade di città, architetture storiche e contemporanee, cieli, pietre, prati, corpi, divengono oggetti di uno sguardo indagatore e poetico, organizzatore e immaginifico. “Il mondo delle forme si libera – scrive – e va al di là del senso immediato”, a legare immagini tra loro diverse c’è “un filo sottile ma forte che parla il linguaggio della vicinanza” ed esse sono “indicatori della realtà ma ci permettono anche di intravvedere la possibilità di una via d’uscita da essa”. Forte di una cultura visiva profonda (il nonno fotografo, il padre e la madre entrambi pittori), frequentatore delle culture orientali, Radino immagina attraverso la fotografia un mondo di figure varie, tutte meritevoli di essere guardate e pensate, in una continua oscillazione dalla natura alla cultura.
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LUNA IN SOGNO – “Se tu devi poetando fingere un sogno, dove tu o altri veda un defunto amato, massime poco dopo la sua morte, fa che il sognante si sforzi di mostrargli il dolore che ha provato per la sua disgrazia. Così accade vegliando, che ci tormenta il desiderio di far conoscere all’oggetto amato il nostro dolore; la disperazione di non poterlo; e lo spasimo di non averglielo mostrato abbastanza in vita. Così accade sognando, che quell’oggetto ci par vivo bensì, ma come in uno stato violento; e noi lo consideriamo come sventuratissimo, degno dell’ultima compassione, e oppresso da una somma sventura, cioè la morte; ma noi non lo comprendiamo bene allora, perché non sappiamo accordare la sua morte con la sua presenza. Ma gli parliamo piangendo, con dolore, e la sua vista e il suo colloquio c’intenerisce, e impietosisce, come di persona che soffra, e non sappiamo, se non confusamente, che cosa”.
È in questi termini che alla data del 3 dicembre 1820, in un appunto dal titolo emblematico, “Del fingere poetando un sogno”, Leopardi definisce modalità e funzionamento per raccontare in versi un sogno. Non un sogno qualsiasi, ovviamente, bensì un sogno particolare, specifico, quello di “un defunto amato” col suo carico di emozioni e rimpianti.
Altre volte è l’angoscia, la paura della perdita e della comparsa. Pensiamo allo Spavento notturno del 1819, dove, in forma singolarmente dialogica, questi sentimenti si metaforizzano e fissano in un’immagine potente, emblematica, quella della Luna, in cui si incrostano e incontrano tante cose differenti che si rincorrono attraverso i Canti, a partire principalmente da questo e passando attraverso il Canto notturno e fino al Tramonto della luna del 1836.
LO SPAVENTO NOTTURNO
(Frammento XXXVII)
Alceta
Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno
Di questa notte, che mi torna a mente
In riveder la luna. Io me ne stava
A la finestra che risponde al prato,
Guardando in alto: ed ecco a l’improvviso
Distaccasi la luna; e mi parea
Che quanto nel cader s’approssimava,
Tanto crescesse al guardo; infin che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
Grande quanto una secchia, e di scintille
Vomitava una nebbia, che stridea
Sì forte come quando un carbon vivo
Ne l’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva, annerando, a poco a poco;
E ne fumavan l’erbe intorno intorno.
Allor mirando in ciel, vidi rimaso
Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,
Ond’ella fosse svelta: in guisa ch’io
N’agghiacciava; e ancor non m’assicuro.
Melisso.
E ben hai che temer, chè agevol cosa
Fora cader la luna in sul tuo campo.
Alceta.
Chi sa? non veggiam noi spesso di state
Cader le stelle?
Melisso.
Egli ci ha tante stelle,
Che picciol danno è cader l’una o l’altra
Di loro, e mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna in ciel, che da nessuno
Cader fu vista mai se non in sogno.
Tema del canto, come si vede, è il dialogo che si svolge tra due pastori, Alceta e Melisso: al primo che stupefatto racconta di aver visto in sogno cadere in sogno la luna nel proprio campicello, il secondo obietta con ironica saggezza che si è trattato davvero di un sogno impossibile e che comunque la caduta del satellite lunare sarebbe stato comunque un “picciol danno” trattandosi di una sola tra le innumerevoli “stelle” del cielo.
Fondato su uno spunto autobiografico, segnato nel Supplemento generale a tutte le mie carte del ’19 (“Luna caduta secondo il mio sogno”), l’idillio mette a confronto due personaggi, due età (da un lato, una giovinezza sognatrice e sbigottita; dall’altro, una maturità arguta e razionale), facendo affiorare un intrinseco rimpianto per i sogni della fanciullezza, così dell’individuo come dell’umanità, sulla scena di un mondo su cui domina la Luna con la sua presenza enigmatica, se non ostile.
La grazia agile e fiabesca delle immagini, intrisa di una letterarietà morbida e raffinata, e l’efficacia ingenuamente realistica della descrizione (la luna “grande quanto una secchia” e quasi “carbon vivo”) riscattano questo frammento dal manierismo di moduli stilistici inequivocabilmente debitori della poesia idillico-pastorale, sulla linea che va da Teocrito a Tasso all’Arcadia settecentesca. Ne risulta una testimonianza viva dell’attitudine “sperimentale” del giovane Leopardi, proiettata in questo caso verso un “miracolo” di rappresentazione oggettiva, facendo parlare un critico-poeta come Riccardo Bacchelli di “poemetto incantevole” dal “garbo librato e alato” (1946). La singolarità della situazione (imparentabile come aveva fatto già Luigi Russo e più recentemente Emilio Peruzzi, 1987, con i giovanili studi astronomici del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi) e la peculiarità del registro onirico mai altrove frequentato dall’autore (se si esclude la cantica dell’Appressamento della morte, il cui autografo è conservato al Museo Giovio di Como) hanno stimolato, tra gli altri, tentativi di lettura psicoanalitica, oltre che vere e proprie “imitazioni”.
Tra i primi, va segnalato il saggio di Giuliano Gramigna (1978), che rileva come nel testo sia presente “il godimento non tanto di vedere cadere la luna dal cielo, ma di sorprenderla dove non è più, nel suo buco, nel suo manque”; per le “imitazioni” vanno citati i racconti teatrali Le esequie della luna e Lunaria, rispettivamente di Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo, nei quali lo spunto offerto dal testo dell’idillio si dilata a metafora barocca della vanità della vita e del mondo.
Va infine ricordato un ultimo contributo, quello di Roberto Sanesi (1989), che dopo aver sgombrato il campo da ogni tentazione di lettura suggestiva ed esoterica (“non ha nessuna delle ambiguità della Dea Bianca, della Grande Madre”), vi legge fin dal titolo “per lo meno deviante” il tentativo di “esorcizzare” quello che è uno stato d’animo essenzialmente leopardiano, come si evince fin dalle primissime pagine dello Zibaldone, ossia il concretissimo sentimento della paura: “il vuoto che la luna lascia nel luogo celeste che le appartiene, e che il sogno rivela, non è nel fatto che “non c’è più” (o che era un tutt’altro, risibile, di scarso valore: un tizzone) ma nella cancellazione dei valori di opposizione, di resistenza, che si erano stabiliti quando “c’era”. Confermando in modo indiretto la luna come effettivo simbolo di natura “matrigna”, Leopardi manifesta la sua paura che, inconsciamente, è paura di scomparizione dei motivi che gli consentivano di sopravvivere nella parola, che consentivano di dire”.
“AD IMPERITURA NOTTE” – Torino spiritualità, una riflessione sulla fede e il rapporto col divino –
Chi l’ha detto che Festival è sinonimo sempre e soltanto di dispersione e futilità? “Torino Spiritualità”, alla sua XV edizione, è un festival di tutt’altro genere, e per la materia che tratta e per i suoi organizzatori e relatori. Intanto, il tema, “Ad imperitura notte”, ossia la notte e i suoi molteplici significati, e poi per quelli che lo tratteranno, da Enzo Bianchi, a Dario Argento, Luciano Manicardi, da Neri Marcorè ad Ascanio Celestini, a Massimo Recalcati, ai giornalisti Alessandro Zaccuri e Domenico Quirico, nonché, tra gli altri, i sociologi Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, al teologo Vito Mancuso e alla poetessa Chandra Livia Candiani, che esploreranno il buio come scrigno di miti, narrazioni e sogni, come forziere di fascinazioni e misteri che da sempre seducono il cuore dell’uomo e indagheranno la tematica alla luce della fede, dalla filosofia, dell’etica, dell’arte, a partire dal 26 al 29 settembre.
Il tutto nella convinzione che le espressioni artistiche, la musica, l’arte, la letteratura sono strumenti per comprendere la realtà e illuminare la coscienza, come l’alba colora le tenebre.
Il programma, è quanto mai ricco e stimolante e comprende, oltre gli interventi delle personalità citate, anche incontri con la monaca induista Svamini Hamsanan, il Monaco cristiano Guidalberto Bormolini e l’esperto di mistica Marco Vannini, nonché con il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, che propone un percorso nell’opera del quadro Guernica.
Per info: www.torinospiritualita.org
PIANETI GEMELLI – Una scoperta emozionante, che ci fa guardare il cielo, la Notte, con altri occhi: un pianeta, al di fuori del Sistema Solare, dalla massa simile a quella della Terra e distante 110 anni luce, e nella cui atmosfera è stato rilevato vapore acqueo, tanto da far ipotizzare che vi potrebbero essere forme di vita. Pubblicata sulla rivista Nature Astronomy, la scoperta è del gruppo dell’University College di Londra, coordinato da Angelos Tsiaras e di cui fa parte l’italiana Giovanna Tinetti. E’ anche la prima volta che viene osservata l’atmosfera su un pianeta che si trova nella cosiddetta ‘zona abitabile’, ossia la zona compatibile con temperature che permettono l’esistenza di acqua allo stato liquido. I ricercatori ne hanno ricostruito le caratteristiche grazie ai dati acquisiti nel 2016 e nel 2017 dal telescopio spaziale Hubble, gestito dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa) e dalla Nasa.
“STRANGERS IN THE NIGHT” – “Ho cercato il segreto degli attori, osservando i loro oggetti sul tavolo da trucco, guardandoli negli occhi. Creature sensibili, violini pronti a suonare”, confessa Paola Carmignani, critica teatrale del Giornale di Brescia nel suo illuminante La passione teatrale (La Quadra Editrice, Iseo 2018), in cui tra leggerezza e profondità rivisita in un appassionante racconto critico-biografico la sua vita inseguendo per oltre trent’anni opere e personaggi ormai mitici (da Lilla Brignone, a Rossella Falk e ad Anna Proclemer, da Valeria Moriconi ad Ave Ninchi e a Milva, da Lauretta Masiero a Gianrico Tedeschi, a Giorgio Albertazzi, a Giorgio Gaber con la sua contagiosa e “mite intelligenza”), personaggi che vivono sulle scene della notte come fantasmi, che, pur mettendosi nei panni dei loro personaggi, non possono rinunciare al loro carico di vissuto, al loro “mistero”, come l’Autrice giustamente sottolinea riportando le parole di Francesca Nuti. Incontri, interviste, aneddoti, straordinarie storie che consentono di cogliere umanità altrimenti sconosciute, e che l’autrice sa restituirci con leggerezza e profondità.
Vincenzo GUARRACINO, poeta, critico letterario e d’arte, traduttore, è nato a Ceraso (SA) nel 1948 e vive a Como.
Ha pubblicato, in poesia, le raccolte Gli gnomi del verso (1979), Dieci inverni (1989), Grilli e spilli (1998), Una visione elementare (2005); Nel nome del Padre (2008); Ballate di attese e di nulla (2010).
Per la saggistica, ha pubblicato Guida alla lettura di Verga (1986), Guida alla lettura di Leopardi (1987 e 1998) e le edizioni critiche di opere di Giovanni Verga (I Malavoglia, 1989, Mastro-don Gesualdo, 1990, Novelle, 1991) e di Giacomo Leopardi (Diario del primo amore e altre prose autobiografiche, 1998).
Oltre ciò, l’edizione dell’autografo comasco dell’Appressamento della morte (1993 e 1998), e l’antologia Giacomo Leopardi. Canti e Pensieri, 2005.