ALESSANDRO MOSCE’: UNA POESIA DALLA FORZA ESORTATIVA

Conosciamo Alessandro Moscè e la sua opera in poesia e in prosa, ma anche le sue digressioni critiche in particolare sul Novecento italiano. In ogni genere e stile dei suoi scritti, predomina ciò che gli sta più a cuore, ciò a cui non rinuncerebbe mai, che rispecchia una sicurezza ideale: il sigillo degli affetti, dei suoi “fantasmi” nel sentimento ritrovato. Sentimento per i nonni, per il padre, per l’adolescenza, per un campione di calcio, per Fabriano e Ancona, per i giardini pubblici, luoghi esistenziali, come ha dichiarato, meditativi, metafisici. E’ un’idea di libertà, quella di Moscè, non condizionato dalla retorica ideologica. Idea connessa alle passioni che nascono da bambini e che da adulti si fanno atto di volontà. Per sempre vivi (Pellegrini, 2024), l’ultima raccolta poetica nella bellissima collana diretta da Tiziano Broggiato, mantiene un’intensità espressivain bilico tra il presente da testimone del tempo e il passato in chiaroscuro, compresi il tormento per la malattia dell’infanzia,fortunatamente superata, ela scoperta dell’eros, dello stupore e del piacere, assecondando gesti spontanei. “Sei regina che si sdraia di fianco / sei della razza di chi non ha paura di spogliarsi / della cinta bucata dell’anima”. O più esplicitamente: “Una mano cerca l’altra / e per questa pazza lanciarla lontano / vuol dire tirarsela contro / sapendo cosa desidera addosso”. Non sappiamo se la morte, uno dei sostantivi più ricorrenti, sia un’ossessione, una vecchia paura, o se Moscè nutra consapevolmente il fascino misterioso oltre il contingente, lasciando che una ferita oscura sia rivestita di vivida immaginazione. Sappiamo senz’altro che la morte erompe nella psiche, perché come scrive Mario Famularo nella prefazione, replicando Rilke, “la morte è grande”. Se quel “vivi”contiene una forza esortativa, Moscè contrasta il vuoto dell’anima con la conciliazione umana che si nutre del bene e della malinconia del ricordo: “Tutti vorremmo che fosse qui ogni morto / tutto il ritmo dei corpi vitali / e non una recita, non un breve racconto / non un millennio in un foglio stracciato”. Moscèestrae le radici del secondo Novecento certificando l’autenticità della parola poetica, come è stato più volte puntualizzato dai suoi critici. E’ un poeta nato negli anni Sessanta che ha scelto, giovanissimo, i suoi maestri: Gatto, Penna, Caproni, Sereni. I versi sonosospesi nei limiti dell’io e nella vocazione del noi, nel vortice lirico che ingloba la storia della gentecomune e l’onestà intellettuale fluttuata tra la lingua e la figurazione. Accogliamo in pieno la convinzione di Tiziano Broggiato nella nota di copertina di Per sempre vivi: “Un percorso di vita e di poesia costellato da profonde rarefazioni in cui si sovrappongono il fiato corto della possibile resa e la consapevolezza, poi, di una conquistata, fortemente voluta trasfigurazione”. Nella sezione “Dialoghi con mio padre” Moscè chiede di sapere di Dio, spingendosi anche oltre la morte. Il colloquio visionario ai piedi di una montagna sacra lo rimanda alla vita terrena, nell’impossibilità di far propria una verità suprema, un punto di resistenza inattaccabile. E’ qui che il significato diventa necessario, seppure impenetrabile.Moscè fa dire al padre: “Cammino in un grande giardino e la stagione è fresca. Le colombe sfrecciano in cielo, bianchissime”.

Eliza Macadan

PER SEMPRE VIVI: LA POESIA DI ALESSANDRO MOSCE’

Nella nuova raccolta poetica di Alessandro Moscè ritornano alcuni temi che hanno contrassegnato il percorso lirico dell’autore marchigiano: il rapporto con i parenti morti, la malattia che lo colpì durante l’infanzia segnandolo profondamente, la vita di provincia che passa in maniera lenta e inesorabile, alla stregua di un macigno che rotola sempre alla stessa velocità. Diviso in cinque sezioni, il libro ha una struttura coesa, esistenziale e autobiografica, anche se il lessico non risulta mai troppo puntellato da quelle “astrazioni di labirintica ed inutile complicazione” che Mario Famularo nella prefazione al volume cita quale esempio di facile distrazione per qualsiasi poeta.

Dall’intensità della prima sezione Apparizioni in cui appaiono le figure amate di una intera vita – nonno Ernesto, la mamma, zia Mariella, insieme ad altre presenze femminili di cui non conosciamo l’entità –, lo stile di Moscè sembra un po’ rarefarsi, lasciando spazio ad immagini più compatte ed incisive, prive delle lunghe descrizioni di questo inizio. Su questa riga si manifestano i sogni dell’omonima parte, composti da riflessioni oniriche e tendenti sempre più al minimalismo, come in questi versi: “Svapora il fumo notturno / all’interno degli androni / per i sonnambuli della riviera / con gli zigomi scavati / e un profilo più affilato. / Il grigio dell’aria non si riempie / per i sogni incorporei / degli uomini di mare / schiusi come i gusci / delle vongole tra le reti”. Questi sogni assomigliano molto a quelli della tradizione francese, i cosiddetti récits en rêve, i quali fanno da ponte tra passato e presente, tra una storia più prettamente personale e una collettiva. Da buon poeta qual è, Moscè gioca inoltre sui silenzi che intercorrono tra gli esseri viventi, costruendo alcuni versi molto brevi, quasi alla maniera dell’haiku. Sono versi pieni, certamente ungarettiani, in cui la totalità dell’esistenza vi si riverbera all’interno, rimandando a quella pienezza e a quella vitalità a cui il titolo della silloge rimanda: “Il suono del silenzio / lo hai mai sentito alle cinque del mattino / quando il buio definisce anche i brusii? / Il mondo si annusa, alle cinque del mattino”. Nei Dialoghi con mio padre, invece, la prosa poetica dell’autore fabrianese tocca vette molto alte di complicità con il proprio caro, facendogli rivivere gli ultimi istanti attraverso la pagina scritta. È qui che tematiche più propriamente metafisiche trovano il loro fondamento, nei dialoghi serrati in cui la quotidianità del vecchio padre defunto si mescola con riflessioni profonde, come quelle che indagano l’esistenza di Dio: “Ascolti Dio? / No, non lo posso ascoltare. / È in cima alla montagna? / Non lo so. / Sii sincero. / Dio non si mostra. Chi ha orecchi oda. È un’esortazione che compare nell’Apocalisse. Dio è nutrimento. Sono a metà del cammino. Vederlo vorrebbe dire averlo assimilato. È qualcosa di inafferrabile”. Infine, La guarigione presenta il male come un gioco, qualcosa a cui non si deve pensare se si voglia uscirne indenni, anche qui utilizzando una poesia molto asciutta e diretta. Compare in poesia per la prima volta Giorgio Chinaglia che, con il suo esempio, dà forza e speranza all’autore costretto negli ospedali per quasi due anni, chiudendo il cerchio sulle due grandi passioni di Moscè: lo sport e la letteratura.

Riccardo Bravi

QUANDO LA POESIA SI CONFROTA NEI SIGNIFICANTI

SILVIA COMOGLIO

IL TEMPO AMMUTINATO – Partiture

JEAN FLAMINIEN

L’ESSERE CHE CONFIDA

(Book Editore)

Il binari sono anche due parallele percorse da un treno che ha un punto di partenza e uno di arrivo, sopra tutto quando il viaggio è inteso come percorso poetico. Dunque percorrere e attraversare linee di demarcazione cui spingersi, andare oltre in quello o quell’altro modo di farlo. Come fa l’arte nelle sue varietà, modi, stili e linguaggi nei molteplici movimenti che risentono di un tempo logico; luogo pulsionale ove i linguaggi si traducono non senza visionarietà. Ma e la poesia dove abita? Come tutte le arti in un luogo dove una linea si divide in molteplici parallele: quelle dell’arte visiva, della musica, quella letteraria, immaginando dei metodi che già conosciamo: lo sperimentalismo come “ammutinamento” contrariamente ai canoni solitamente “imposti” dagli alti comandi istituzionali della scolastica. Due esempi a confronto: “il tempo ammutinato – Partiture” di Silvia Comoglio e quello apparentemente più aulico di Jan Flaminien in “L’essere che confida” ambedue per i tipi di Book Editore (Riva del Po – Fe), editore che si distingue (come pochi altri) dalle tante, troppe “miserabili italiane”, dove i contenuti contano poco quanto contano interessi altri spesso manovrati dai così detti poeti “laureati” in tornacontologia. Non era Toni Negri il cattivo maestro. Odo una eco famigliare: “ma lo sperimentalismo non si fa capire!”. Risposta a quelli ciechi e sordi: “se non ci fosse, non sarebbero esistiti i Dante, i Leopardi o gli Ungaretti, i Porta, se si preferisce”. Occorre provare a cogliere i significanti come quello dei bei campi arati pronti alla semina, ad esempio, sembrano consigliare la Comoglio e Flaminien quando hanno composto le loro “sinfonie”. Con pazienza e lettura (che arricchiscono la propria cultura), gli enigmi si sciolgono. Sembra così interrogarsi Silvia Comoglio in: “ma, fiorisce dunque la parola/ in specchiata ombra immedicata?” (…) è un dio allora a tinnare di bocca/ in ombre di barbe pure di vita?” se: “i-mmorrale proclamo te/  nel tempo ammú-tinato”, si risponde filosofando teo/retica/mente. Più immediato e spontaneo è il guascone Jean Flaminien nelle complicazioni di un’insana geopolitica (rammentando l’elaborazione teorica dello psicoanalista marsigliese Roland Gori che da un decennio studia questi fenomeni responsabili dei disastri economici e delle guerre nel mondo): “Scuotersi ogni mattina come un cane,/ ritrovarlo nella propria vita,/ partecipare al suo entusiasmo./ Alleggerirsi al fardello dell’incertezza/ che grava sui nostri comportamenti:/ è la sottomissione delle cose che muta la nostra identità,/ turbando la nostra felicità, (…)”. Uno degli esergo di Baudelaire citati nella raccolta: ”Tutte queste cose attraverso me,/ e io penso attraverso loro”. E bella la citazione del mio povero amico Philippe Sollers (scomparso da poco – quello dello sperimentale “Paradis”): “Un’esperienza totalmente diversa del tempo, dello spazio, dell’ascoltare, del vedere, del sentire, del gioire” (da: “Fiducia dell’infinito”) È proprio dall’infinito, o meglio dal transfinito che i nostri due autori, apparentemente con scritture opposte, sembrano incontrarsi: due linguaggi squisitamente stranieri. Ma è proprio la stranianza che mette in scena una concatenazione di significanti da tradurre. La vicina libreria o internet (sob) permetterebbe di viaggiare con Silvia Comoglio e Jean Flaminien.    

Ite missa est.

 

Tiberio Crivellaro

Stasera metti gli occhiali da luna – Corrado Calabrò

Nota critica di Vincenzo Guarracino

În seara asta pune ochelarii de lună (“Stasera metti gli occhiali da luna”) recita il titolo dell’ultima svelta silloge di versi pubblicata da Corrado Calabrò in lingua romena Cosmopoli, Bacău 2023) nella traduzione di Eliza Macadan. “Metti gli occhiali alla luna”, contenuta in un testo dal titolo singolare vagamente pavesiano, Verrà l’amore e avrà le tue labbra, con un’immagine suggestiva, forse poco coerente con i toni sempre classicamente composti della più nota poesia di Calabrò ma qui adeguati alla situazione di appassionata contemplazione dell’Oggetto amoroso, della Visione, che permea molta sua poesia, assieme ai grandi scenari cosmici e marini. Quasi a voler dire che qui, in certi Momenti, l’immagine che si staglia dinanzi ai suoi occhi può produrre un affetto di abbacinamento, tale da superare, da “spegnere” ogni altra fonte luminosa, perfino quella complice e amorevole della Luna.  

È su tali direttrici, l’Amore, il Cosmo e il Mare, che si svolge da sempre tutta la sua poesia ma qui in questa silloge, in particolare in un testo, Déshabillée, prende il sopravvento la prima tematica e tutto sembra concentrarsi essenzialmente su un momento di passione, di essenziale abbandono a un sogno di reciproca attrazione e dedizione, sulla spinta di un desiderio di appagamento e completamento spirituale, incurante di ogni grossolanità e perbenismo, fermo restando che la figura femminile si attesta in tutto il suo fulgore fisico sulla scena di una natura complice e accogliente. In questo modo, soggetto e oggetto perseguono e realizzano, con casta impudicizia, un progetto che dai sensi si trasmette senza veli di ipocrisia all’animo come ricerca della loro “più intima bellezza”, come assieme al Catullo del c.68 sembra suggerire con ispirato calore il testo di Calabrò che gareggia col più appassionato Catullo del c.68. Con un invito: di essere incuranti del giudizio dei moralisti: “senza chiedersi in che stagione siamo / e che cosa ne pensa la gente” (Alla moviola)

Déshabillée

Ti svestirò di luna

sulla grande terrazza.

Ottenebrata sotto noi la notte

rapprende collosa gli umori

di corpi grevi che russano

con le finestre aperte.

Ti svestirò di luna

sulla grande terrazza

fino alla tua più intima bellezza

e ti denuderà così svestita,

mentre la luna impallidisce, l’alba.

VINCENZO GUARRACINO

Corrado Calabrò è nato a Reggio Calabria nel 1935 e vive a Roma. Ha pubblicato nel 1960 il suo primo libro di poesie, col titolo Prima attesa, cui  sono seguite poi numerose altre raccolte, tra le quali ricordiamo: Agavi in fiore (1976), Vuoto d’aria (1979), Presente anteriore (1981), Mittente sconosciuta (1984), Rosso d’Alicudi (1992), Lo stesso rischio (2000), Una vita per il suo verso (2002), La stella promessa (2009), Mi manca il mare (2013) e infine Quinta Dimensione (2021).

Ha pubblicato complessivamente in Italia 23 libri di poesie e 34 all’estero, in 20 lingue: sei  in spagnolo, cinque in svedese, cinque in inglese; due in francese, russo, ungherese, ucraino, portoghese, rumeno; uno in tedesco, serbo, greco, polacco, danese, ceco.

Per la sua opera letteraria gli è stata conferita la  laurea honoris causa dall’Università Mechnikov di Odessa nel 1997, dall’Università Vest Din di Timişoara nel 2000, dall’Università statale di Mariupol nel 2015. Nel 2016 l’Università Lusófona di Lisbona gli ha attribuito il Riconoscimento Damião de Góis.  Alla sua raccolta di poesie Acuérdate de Olvidarla (Ricordati di dimenticarla) è stato assegnato il Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015.

Nel luglio 2018 l’Unione Astronomica Internazionale, su proposta dell’Accademia delle Scienze di Kiev, ha dato all’ultimo asteroide scoperto il nome di Corrado Calabrò per avere rigenerato la poesia aprendola, come in sogno, alla scienza.

In acque di silenzio – Silvia Comoglio

Nota critica di Vincenzo Guarracino

“In acque di silenzio”, meglio: În ape de tăcere, intitola Silvia Comoglio, poetessa con all’attivo una già ricca storia, la sua svelta silloge di una quindicina di testi inediti, appena pubblicata in lingua romena nella preziosa traduzione di Eliza Macadan (Cosmopoli, Bacău 2023), davvero artifex artifici additus. In acque di silenzio, come dire un silenzio che si fa musica nel suo atto primigenio, a partire cioè dalla struttura liquida e magmatica di suoni e nuclei sillabici e lessicali, che generano in polifonica sostanza senso e significato col loro moto agglutinante, tra figure foniche e matericità dei significanti, col “moto nascente della lingua”, secondo il suggerimento di Flavio Ermini riportato nell’esergo del libro più recente Il tempo ammutinato edito da Book Editore nello stesso 2023: è questo che sperimentiamo nel moto avvolgente di una scrittura “acquea”, “stregata” e stregante, a volerla definire con parole della stessa autrice. Tra “cielo”, “acque” e amore, il molto amore offerto e dichiarato dal primo testo (Io – ti amavo. / Ma c’era l’acqua e il tuo padrone. E l’orso che sapevo / amarti dentro il cielo, amarti /dentro il cielo …”): sono queste le chiavi di lettura, forse, di tutta la silloge, assieme al “tempo che non viene”, al tempo che non dà mai pienamente ciò che promette, stando anche al messaggio suggerito dall’ultimo testo, il conclusivo (“è chiuso, disse, in aurora abbastanza, / il rullare di mani? l’ombra, di tutti, / i cambi di bosco che u- /signoli stupendi cherubinano in cielo / andando, indietro, tutti a ritroso …”).

VINCENZO GUARRACINO

VINCENZO GUARRACINO

FIORI E LTRI IN CANTI – Le stagioni di Leucò

Di Felice Edizioni

Tra interrogazioni e congetture l’aforisma non smette di versare, s/foliare i petali di un fiore (?). La rosa sembra prevalere per profumo ed espressione, ma è il glicine a esserlo nella copertina di “Fiori e altri incanti – Le stagioni di Leucò” (Di Felice Edizioni) del lariano emerito Vincenzo Guarracino da Ceraso. Nella sua preziosa raccolta trabocca un florilegio colmo di significanti da intendere volendo acquisire la chiave del discorso che si dipana tra quartine (divise in due versi) per” altrove” tra eventi passati ed intime esperienze, o grappoli di stagioni lucenti-algenti di passata memoria. Che va a vendemmiarsi, ma continuando ad auspicare ritorni momentanei di “grazia miracolosa” seppur incerta di un poeta quasi mesto nel suo esser “formale” studioso e insegnante del Leopardi, Dante, dei “Classici”.  Professore in aule passate-liete brulicanti di studentesse e studenti per nulla canaglie, ma attente al buon maestro capace delle migliori antologie. Guarracino Vincenzo “in hoc signo vinces”: “Come in sogno tra noi il dato e avuto/ sogno dolce in una scena interminabile”. L’interminabile “postura” dell’autore che “si confessa” (senza bisogno di assoluzioni) con l’enigma e raramente “Per dire quanto un sogno è fatto d’aria” Sogno cullato dal vento? Se Guarracino così lo indica: “Felice si offriva era la scala/ spiraglio ad un sogno che si avvera…” Un riferimento (fors’anche?) alla Casa Editrice cha tanto ha dato, e non solo al cantore di Leucò. Con mesta ansia e turbamento sta “scassinando” poco a poco i suoi cassetti dove riposano le reliquie tante che, goccia a goccia, per istanza pulsionale, vanno a formarsi in lago, più lucido e pulito di quello che forse intravvede dalla sua stanza? E a chi sono dedicate le sessanta primavere nella dedica a inizio raccolta? Autore sì stanco, ma che non demorde per istanza del “far dire per scrivere”. Quasi a ricordarsi di “Come è chiara la luna questa sera/ e come cerca ogni stella la sua insonne (…) E: “Le parole dei versi sono fili/ cuciono ricuciono ferite//ricamano miraggi sopra i veli/ di ciò che t’assorbe anche la vita” (…) “Aspetta di essere toccato basta/ Lei con la sua fiamma all’alto volo (…) “Lei con la sua fiamma all’alto volo”. (oh, bella margherita, mi-ami non-mi-ami mi-ami?). La Margherita, fiore semplice e gentile, che sia luce o notte, nube o vento; pure quando “a volte la scrittura è senza pace/ insegue, insegue e scava le parole// come gli attimi del naufrago le ore/ s’allagano nel solco che s’annera”.  Ma ci son versi per somma dieci (a pag. 48): “Là dove i bordi dell’acqua (…) umano smarrimento (…) tra Lazio e Verbania c’è/ poesia”. E intanto: “Se dolce è dormire/ più dolce è dire// che non fu errore// d’aprile ascoltare/ con la vita il suo cuore. Quasi ghibellin, Guarracino è accompagnato, nelle sue frangenze da Leucò, dea dell’onda. Lasciando certi discutibili commentari di  Francesco Flora che ha “tormentato” Ermete o Mercurio, se qui pare evidente un “ermetismo al transfinito” di Vincenzo Guarracino, che “ubbidisce” a certe regole della metrica si nota l’operare-adoperare un  linguaggio misterioso-essenziale comparabile al Caproni, lontanamente a Quasimodo? Si auspica continui questa grazia in versi puri. Insomma, non è possibile dirvela tutta in 3.297 battute. Cielo!    

Tiberio Crivellaro     

                            

Tiberio Crivellaro è nato a Saccolongo (PD) nel 1955. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Tra quelle più importanti: Scomparsa delle lucciole e  Dialogo con il silenzio (Book Editore),  Ethanol, Senza perdere la tenerezza, Luceafarul, L’albero teoretico. È presente in numerose antologie, ha insegnato e tenuto letture presso la Mc Gill University di Montreal (2002). Collabora alle “terze cultura” dei quotidiani La Sicilia, Il Manifesto, L’Altro Giornale Marche e alle riviste argentine Borromeo (Università Kennedy), Cita en las diagonale, De inconscientes.

Paolo Fabrizio Iacuzzi, Consegnati al silenzio, Bompiani 2020 – Recensione di Vincenzo Guarracino

Un enigma che fa paura: il MALE SENZA NOME, in un libro di Paolo Fabrizio Iacuzzi

 

Un libro nutrito di vita, laddove la vita balla pericolosamente su un crinale di malattia e di morte: Consegnati al silenzio. Ballata del bizzarro unico male è questo, sesto capitolo in sette quadri di una saga, piena di vita e insieme di dolore e di morte, che Paolo Fabrizio Iacuzzi con determinazione va costruendo da anni, tra biografia e invenzione, a partire da Magnificat (1996), a Jacquerie (2000), a Patricidio (2005), a Rosso degli affetti (2008), a Pietra della pazzia (2016), fino a Folla delle vene (2018), inscrivendoli in un ambizioso organismo poematico tenuto ossessivamente insieme, oltre che dalla passione per le arti, plastiche e figurative, dal filo di un colore, rispettivamente il bianco, il blu, il giallo, il rosso, il rosa, fino al verde che intride e contraddistingue quest’ultimo tassello. Il tutto vissuto con un atteggiamento tra leggerezza e attesa, giocato com’è tra toni contrastanti, tra popolaresco e sublime, come suggerisce il genere.

La vita c’è perché c’è una galleria di persone, luoghi e situazioni reali, concrete, che coralmente si accampano sulla scena nell’hic et nunc di una evocazione senza tempo, ciascuno fissato con le stimmate del suo dramma, in un gioco di specchi e rifrazioni tra ieri e oggi: un “coro di misericordia” (“Le luci che si accorciano. Inesorabile potenza dell’istante. / Qui riuniti babbo nonno figlio nipote. Mozzi nomi / d’organi virus batteri. Tutti consegnati al silenzio. /…/ un coro di misericordia. Un punto di carità condivisa…”). È una folla che si trasforma in una genealogia, quella che appare nei versi di Iacuzzi, costituendosi come una sorta di “cronaca familiare”, se non di vero e proprio romanzo freudiano (“museo che di me affiora”, come veniva chiamato in un testo della raccolta precedente): una “vita a quadri”, insomma, lineare eppure spezzettata, a livello sia di fabula che di forma, dove individuale e collettivo, io e moltitudine, coincidono eppure sono intercambiabili, nel segno ciascuno di una propria “bizzarra” unicità che emerge dal tempo e si attesta nel teatro di una città, Pistoia, sintetizzata nello Spedale del Ceppo, luogo fondativo e terminale al tempo stesso, incidendovi la propria cifra, onomastica o biografica, in una sigla, come uno sfregio (quello che compare in Pietra della pazzia, nel nome di un antenato, Gio Batta, e in una data, 1816, su una colonna del portico dello Spedale), quasi a decretare e accampare su ogni cosa diritti e signoria, ma con un misto di “crudeltà” e “leggerezza”.

Ma c’è anche, al tempo stesso, incombente, non dissimulato, fin dal sintagma del sottotitolo, il segno subdolo del suo sfacimento, un Male che “bizzarro” s’incista nelle pieghe e nel silenzio del corpo o negli oscuri ambulacri tra mente e cuore, come “virus annidati fra un organo / e l’altro”, affermando il diritto di farsi luce e riconoscersi attraverso gli indizi della fisiologia, dal “rumore del sangue” non meno che  da “una traccia” (“di profumo” o ”di seme”): un silenzio da ascoltare come un “mistero”, un enigma che fa paura (“Hiv”) e reclama di essere riconosciuto e alla cui decifrazione l’autore si presta quasi a voler ricostruire per suo tramite quella che lui chiama la propria stessa “autobiopsia”.

È così che nel segno livido del Male, tra “il tempo della peste” e “la peste in tempo”, lo Spedale da luogo concreto e reale diventa il luogo-simbolo, universo concentrazionario, tramutandosi per virtù di poesia in occasione per leggere, attraverso i tasselli di cui il testo si compone, incubi e fantasmi che agitano vita e sentimenti di un individuo, di “Iac che da sempre malato” si è sentito “escluso dal mondo”,  dando modo alla scrittura di saldare un debito col suo passato accendendo, come si dice in conclusione del testo introduttivo, “speranze nel cuore”.

(di Vincenzo Guarracino)

 

Paolo Fabrizio Iacuzzi

CONSEGNATI AL SILENZIO.

BALLATA DEL BIZZARRO UNICO MALE

Bompiani, Milano 2020

Spunti quotidiani di riflessione dai Padri Greci e Latini, di Vincenzo Guarracino (VIII)

SETTIMANA SANTA

Spunti quotidiani di riflessione dai Padri Greci e Latini

PRODEST SERMO DOLORIBUS

La parola giova al dolore

“La parola giova al dolore”: ad ogni dolore, ad ogni situazione critica, anche la più drammatica. Di questo ne è convinto Severo Endelechio, scrittore cristiano proveniente dalla Gallia e vissuto nel IV secolo, il quale nel suo De mortibus boum questa affermazione la pone in bocca al pastore Egone, il quale rivolgendosi al suo interlocutore Bucolo disperato per la peste che sta decimando le loro mandrie di bestiame indica la parola come terapia del dolore e poi la fede come risorsa: una Fede capace di ridare la guarigione tracciando un segno di Croce sulla fronte di animali e persone.

Ecco, la Parola come terapia del dolore e la Fede come ricetta di salvezza. Può essere la risposta, in questa Settimana Santa, alle angosce che stiamo vivendo tutti di questi tempi?

 

DOMENICA

MELITONE DI SARDI

Melitone di Sardi, padre apologeta del II secolo, secondo la tradizione fu vescovo della città di Sardi, in Lidia (Asia Minore) e rivestì una grande autorità nella chiesa primitiva, per la sua dottrina e per l’efficacia della sua predicazione.

Secondo Eusebio di Cesarea, sarebbe morto verso il 190.

Di questo scrittore dal “genio elegante e retorico”, secondo San Girolamo, ci è rimasta la sua opera più famosa, in cui è affermata con forza la divinità di Cristo, ossia la Omelia sulla Pasqua (Perì Pascha), il cui testo ancorché frammentario è stato ritrovato in tempi abbastanza recenti.  L’Omelia, prezioso documento di grande spiritualità, destinato ad esercitare vasta e profonda influenza su tutta la letteratura innografica bizantina, consiste essenzialmente in una parafrasi del capitolo XII dell’Esodo, a commento dell’istituzione della Pasqua, quale esemplificazione dell’azione redentrice del Cristo.

PERI’ PASCHA

Sulla Pasqua

Al posto dell’agnello, venne il Figlio,

al posto della pecora l’uomo

e nell’uomo il Cristo,

che ogni cosa contiene.

 

È in Gesù Cristo

che ha trovato compimento

l’uccisione della pecora e il solenne

sacrificio dell’agnello e la Scrittura:

per Lui tutto accadde nella Legge

e ancor più nel nuovo Verbo.

 

E infatti la legge s’è fatta Verbo

e l’antico nuovo,

muovendo entrambi da Sion e Gerusalemme,

e grazia il comandamento

e la figura realtà

e il Figlio l’agnello

e la pecora uomo

e l’uomo Dio.

 

Come Figlio fu infatti generato

e tratto come agnello al patibolo

e come pecora immolato:

come uomo fu poi seppellito

ma risorse dai morti come Dio,

Dio e uomo essendo insieme per natura.

 

Egli è tutto:

Legge in quanto giudica,

e in quanto insegna Logos;

in quanto genera Padre

e Figlio in quanto è generato;

in quanto patisce pecora

e uomo in quanto è seppellito

e in quanto risorge Dio.

 

Tale è Gesù Cristo:

a Lui la gloria nei secoli. Amen.

 

…..

 

Cos’è la Pasqua? Il nome riflette l’accaduto:

Pasqua viene infatti da patire.

 

Riflettete dunque su chi patisce

e su è colui che compatisce con chi patisce,

perché il Signore è sceso sulla terra

per ricoprire il sofferente

e portarlo con sé  al sommo dei cieli.

 

…….

 

Egli è la pasqua della nostra redenzione.

Egli è colui che in molti molte cose ha sopportato:

fu colui che in Abele fu sgozzato

e legato in Isacco,

e fu lui che in Giacobbe patì l’esilio

e in Giuseppe fu venduto;

fu lui che in Mosé fu esposto

e immolato nell’agnello

e ad essere perseguitato in Davide fu lui

e vilipeso nei profeti.

 

Egli è colui che prese carne in una Vergine

e che ad un legno fu appeso;

colui che fu sepolto nella terra

e che risorse dalla morte,

prima di essere assunto nel cielo dei cieli più elevato.

 

……..

 

Questi è colui che ha creato cielo e terra

e l’uomo ha plasmato nell’origine;

e che come annunciato nella legge e nei profeti

si fece uomo in una Vergine

e fu appeso ad una croce

per poi ascendere, risorto

dalla morte, all’alto dei cieli

ove siede alla destra di suo Padre

col potere di salvare e giudicare tutte le cose,

colui che attraverso il quale ha sempre operato

il Padre nei secoli dei secoli.

 

Lui è l’Alfa e l’Omega: principio e fine:

inesplicabile principio e fine incomprensibile.

Lui è il Cristo, l’Unto,

Lui è il re.

È Lui, Gesù,

lo stratega, il Signore, Colui che È,

risuscitato dalla morte

ed assiso alla destra di suo Padre.

Egli mostra il Padre e dal Padre è mostrato:

a Lui la gloria e la potenza nei secoli. Amen.

 

(traduzione di Vincenzo Guarracino)

Perì Pascha, 5-10, 46-47, 69-70, 104-105 (Perler, 1966). Il testo, in prosa ritmica, che è una riflessione sul significato della Pasqua, è la più antica omelia pasquale cristiana giunta fino a noi ed è tutta una contemplazione della Persona e del Mistero di Cristo, messo al centro del cosmo e della storia. L’importanza di questo testo è dovuta al fatto che qui viene esplicitamente formulata la cosiddetta teologia della sostituzione. Per Melitone, infatti la Pasqua ebraica non ha più senso dopo la venuta del Cristo e per lui l’Antico Testamento non è che un prologo, una prefigurazione della cristianità. In altre parole, la Chiesa cristiana sostituisce in tutto e per tutto il giudaismo.

Spunti quotidiani di riflessione dai Padri Greci e Latini, di Vincenzo Guarracino (VII)

SETTIMANA SANTA

Spunti quotidiani di riflessione dai Padri Greci e Latini

PRODEST SERMO DOLORIBUS

La parola giova al dolore

“La parola giova al dolore”: ad ogni dolore, ad ogni situazione critica, anche la più drammatica. Di questo ne è convinto Severo Endelechio, scrittore cristiano proveniente dalla Gallia e vissuto nel IV secolo, il quale nel suo De mortibus boum questa affermazione la pone in bocca al pastore Egone, il quale rivolgendosi al suo interlocutore Bucolo disperato per la peste che sta decimando le loro mandrie di bestiame indica la parola come terapia del dolore e poi la fede come risorsa: una Fede capace di ridare la guarigione tracciando un segno di Croce sulla fronte di animali e persone.

Ecco, la Parola come terapia del dolore e la Fede come ricetta di salvezza. Può essere la risposta, in questa Settimana Santa, alle angosce che stiamo vivendo tutti di questi tempi?

SABATO

VENANZIO FORTUNATO

Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato nacque a Valdobbiadene, presso Treviso, intorno al 530. Dopo aver studiato retorica a Ravenna, peregrinò a lungo per la Germania e la Gallia, finché non si fermò a Poitiers, assolvendo le mansioni di segretario della regina Radegonda, vedova di Clotario,  e indirizzando i suoi interessi verso la poesia profana e religiosa. Diventato sacerdote, si dedicò alla direzione spirituale del monastero in cui la regina si era ritirata, finché non fu consacrato vescovo di Poitiers, dove morì dopo il 600.

Considerato il maggiore poeta d’età merovingia, Venanzio Fortunato ci ha lasciato, oltre a innumerevoli opere agiografiche (Vita Sancti Martini, le Vitae di santa Radegonda e di altri santi gallici), undici libri di Carmina di vario argomento, tra i quali due famosi inni liturgici, Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis e Vexilla regis prodeunt.

VEXILLA REGIS PRODEUNT

Avanzano i vessilli del re

 

Avanzano i vessilli del re,

risplende il mistero della croce,

al cui patibolo sta appeso

con la carne il creatore della carne.

 

Trafitto dai chiodi il corpo,

tesi le braccia e i piedi,

per grazia che redime

si è immolata l’Ostia.

E, qui, ferito al fianco

dalla crudele lancia,

per lavarci dal peccato

ha versato acqua e sangue.

 

Si compiono le profezie,

che il re Davide cantava,

quando alle genti fu annunciato:

da un legno Dio ha regnato.

Albero splendente di nobiltà,

adornato di porpora regale,

scelto come legno della verità

degno di toccare membra sante!

Beato che alle braccia sue

il riscatto del mondo restò appeso,

fatto bilancia per il corpo

si portò via la preda dall’inferno.

 

Spargi profumo tu dalla corteccia,

e vinci il nettare in sapore,

lieto di un frutto fertile,

plaudi al nobile trionfo dell’eternità.

Salve, o altare, e salve, o vittima,

gloria della passione,

per cui la Vita subì la morte

e, con la morte, ridonò la vita!

Ti salutiamo, o croce, unica speranza!

In questo tempo di passione,

dona la grazia ai pii devoti

e cancella le colpe ai peccatori.

 

O Trinità, fonte di salvezza,

ogni spirito ti lodi.

e che il mistero della croce

ci salvi per l’eternità. Amen.

 

(traduzione di Paolo Ruffilli)

Vexilla regis prodeunt, Carmina, II, 6 Leo. Vexilla regis prodeunt, Carmina, II, 6 Leo. L’inno è dedicato alla Croce e fu composto in occasione dell’arrivo a Poitiers di una reliquia della Santa Croce, donata dalla regina Radegonda da Giustino, imperatore d’Oriente, nel 569. Diventato presto famoso, costituisce una delle perle dell’innografia liturgica  e ancor oggi viene cantato dalla Chiesa nella liturgia della Settimana Santa. Intriso di tragica solennità, è ricordato anche da Dante, che ne cita il primo verso all’inizio del c.XXXIV dell’Inferno.

Spunti quotidiani di riflessione dai Padri Greci e Latini, di Vincenzo Guarracino (VI)

SETTIMANA SANTA

Spunti quotidiani di riflessione dai Padri Greci e Latini

PRODEST SERMO DOLORIBUS

La parola giova al dolore

“La parola giova al dolore”: ad ogni dolore, ad ogni situazione critica, anche la più drammatica. Di questo ne è convinto Severo Endelechio, scrittore cristiano proveniente dalla Gallia e vissuto nel IV secolo, il quale nel suo De mortibus boum questa affermazione la pone in bocca al pastore Egone, il quale rivolgendosi al suo interlocutore Bucolo disperato per la peste che sta decimando le loro mandrie di bestiame indica la parola come terapia del dolore e poi la fede come risorsa: una Fede capace di ridare la guarigione tracciando un segno di Croce sulla fronte di animali e persone.

Ecco, la Parola come terapia del dolore e la Fede come ricetta di salvezza. Può essere la risposta, in questa Settimana Santa, alle angosce che stiamo vivendo tutti di questi tempi?

VENERDI’

PROBA

Faltonia Betizia Proba (322-370 d.C.), di famiglia senatoria e moglie dell’aristocratico Adelfio dal quale ebbe due figli, compose attorno al 360, dopo la conversione al cristianesimo, un poema in 694 esametri sulla creazione del mondo e sulla vita di Gesù (Cento Vergilianus de laudibus Christi), diviso in due parti (la prima, 1-332, comprende la narrazione di fatti relativi al Vecchio Testamento con la ripresa di capitoli del Genesi ed un brevissimo accenno a Esodo; la seconda, 333-694, narra episodi della vita di Cristo), utilizzando una raccolta di versi soprattutto virgiliani, per raccontare in una sorta di arazzo di abilissimo intarsio le vicende fondamentali della Storia Sacra, dalle origini del genere umano al diluvio fino alla vita del Cristo, con l’ambizione di dimostrare Vergiliun cecinisse…pia munera Christi, “che Virgilio aveva già cantato i pii doni di Cristo”.

Al di là di ogni valutazione letteraria, a Proba va riconosciuto, oltre che una capacità didattica notevolissima, un primato indiscutibile: è la prima poetessa cristiana in lingua latina, tanto da meritarsi il giudizio ammirato di Isidoro di Siviglia.  Nel medioevo, nelle scuole claustrali, il testo godrà di larga fortuna e verrà letto, studiato e trascritto, così come dimostrano le numerose copie trovate negli archivi dei monasteri e i codici anteriori al decimo secolo.

SISTUNT AMNES TERRAEQUE DEHISCUNT…

I fiumi si arrestarono, si spalancò il suolo

La fiamma del sole era a mezzo cielo,
quando tutti, popolo e capi, chiesero
di averlo innanzi a loro a confessare
la sua stirpe, le pretese e le offerte.
Angoscia mista a stupore schiacciò
gli stolti all’udire le chiare gesta
– infinita ignoranza degli uomini –
e il prigioniero irridevano a gara.
D’ogni parte accorsero con le lance,
s’alzò in cielo un grido e subito tutti
levarono sull’immagine sacra
le mani cruente. Poi con i rami
lo cinsero di una altissima quercia
legandolo con grandi spire e tesero
le braccia per incatenargli i piedi
– opera infame – così tutti quanti
osarono commettere il delitto
più atroce. Ma quello impavido disse
“Perché mi legate? Così sicuri
vi fa la vostra origine? Ma presto
di una pena ben diversa da questa
piangerete”. E tacque immobile e fisso.
Intanto un cupo rimbombo iniziò
a turbare il cielo e la nera notte
rubò all’aria i colori, mentre gli empi
temevano eterno il buio. Tremò
la terra, in fuga le fiere, e il terrore
gelò il cuore dei miseri mortali.
Gridò la terra e un immenso fragore
scosse il cielo. Pallide giunsero ombre
dalle profonde sedi dell’Averno.
Acque e terra diedero segni: i fiumi
si arrestarono, si spalancò il suolo.
Lo stesso oltretomba, la casa stessa
della morte, stupì aprendo antri oscuri.
Tutti l’ammisero – il sole coprì
di fosca ruggine il capo lucente.

(traduzione di Maria Luisa Vezzali)

De laudibus Christi, 607-637, Schenkl. Il racconto della crocifissione e morte del Cristo è condotto, come è statutariamente della tradizione ben testimoniata dei “centoni”, con un’attenta collazione di molti emistichi virgiliani col risultato di dar luogo a una situazione di singolare suggestione letteraria, senza perdere il pathos della narrazione cui si ispira.