ALESSANDRO MOSCE’: UNA POESIA DALLA FORZA ESORTATIVA

Conosciamo Alessandro Moscè e la sua opera in poesia e in prosa, ma anche le sue digressioni critiche in particolare sul Novecento italiano. In ogni genere e stile dei suoi scritti, predomina ciò che gli sta più a cuore, ciò a cui non rinuncerebbe mai, che rispecchia una sicurezza ideale: il sigillo degli affetti, dei suoi “fantasmi” nel sentimento ritrovato. Sentimento per i nonni, per il padre, per l’adolescenza, per un campione di calcio, per Fabriano e Ancona, per i giardini pubblici, luoghi esistenziali, come ha dichiarato, meditativi, metafisici. E’ un’idea di libertà, quella di Moscè, non condizionato dalla retorica ideologica. Idea connessa alle passioni che nascono da bambini e che da adulti si fanno atto di volontà. Per sempre vivi (Pellegrini, 2024), l’ultima raccolta poetica nella bellissima collana diretta da Tiziano Broggiato, mantiene un’intensità espressivain bilico tra il presente da testimone del tempo e il passato in chiaroscuro, compresi il tormento per la malattia dell’infanzia,fortunatamente superata, ela scoperta dell’eros, dello stupore e del piacere, assecondando gesti spontanei. “Sei regina che si sdraia di fianco / sei della razza di chi non ha paura di spogliarsi / della cinta bucata dell’anima”. O più esplicitamente: “Una mano cerca l’altra / e per questa pazza lanciarla lontano / vuol dire tirarsela contro / sapendo cosa desidera addosso”. Non sappiamo se la morte, uno dei sostantivi più ricorrenti, sia un’ossessione, una vecchia paura, o se Moscè nutra consapevolmente il fascino misterioso oltre il contingente, lasciando che una ferita oscura sia rivestita di vivida immaginazione. Sappiamo senz’altro che la morte erompe nella psiche, perché come scrive Mario Famularo nella prefazione, replicando Rilke, “la morte è grande”. Se quel “vivi”contiene una forza esortativa, Moscè contrasta il vuoto dell’anima con la conciliazione umana che si nutre del bene e della malinconia del ricordo: “Tutti vorremmo che fosse qui ogni morto / tutto il ritmo dei corpi vitali / e non una recita, non un breve racconto / non un millennio in un foglio stracciato”. Moscèestrae le radici del secondo Novecento certificando l’autenticità della parola poetica, come è stato più volte puntualizzato dai suoi critici. E’ un poeta nato negli anni Sessanta che ha scelto, giovanissimo, i suoi maestri: Gatto, Penna, Caproni, Sereni. I versi sonosospesi nei limiti dell’io e nella vocazione del noi, nel vortice lirico che ingloba la storia della gentecomune e l’onestà intellettuale fluttuata tra la lingua e la figurazione. Accogliamo in pieno la convinzione di Tiziano Broggiato nella nota di copertina di Per sempre vivi: “Un percorso di vita e di poesia costellato da profonde rarefazioni in cui si sovrappongono il fiato corto della possibile resa e la consapevolezza, poi, di una conquistata, fortemente voluta trasfigurazione”. Nella sezione “Dialoghi con mio padre” Moscè chiede di sapere di Dio, spingendosi anche oltre la morte. Il colloquio visionario ai piedi di una montagna sacra lo rimanda alla vita terrena, nell’impossibilità di far propria una verità suprema, un punto di resistenza inattaccabile. E’ qui che il significato diventa necessario, seppure impenetrabile.Moscè fa dire al padre: “Cammino in un grande giardino e la stagione è fresca. Le colombe sfrecciano in cielo, bianchissime”.

Eliza Macadan

PER SEMPRE VIVI: LA POESIA DI ALESSANDRO MOSCE’

Nella nuova raccolta poetica di Alessandro Moscè ritornano alcuni temi che hanno contrassegnato il percorso lirico dell’autore marchigiano: il rapporto con i parenti morti, la malattia che lo colpì durante l’infanzia segnandolo profondamente, la vita di provincia che passa in maniera lenta e inesorabile, alla stregua di un macigno che rotola sempre alla stessa velocità. Diviso in cinque sezioni, il libro ha una struttura coesa, esistenziale e autobiografica, anche se il lessico non risulta mai troppo puntellato da quelle “astrazioni di labirintica ed inutile complicazione” che Mario Famularo nella prefazione al volume cita quale esempio di facile distrazione per qualsiasi poeta.

Dall’intensità della prima sezione Apparizioni in cui appaiono le figure amate di una intera vita – nonno Ernesto, la mamma, zia Mariella, insieme ad altre presenze femminili di cui non conosciamo l’entità –, lo stile di Moscè sembra un po’ rarefarsi, lasciando spazio ad immagini più compatte ed incisive, prive delle lunghe descrizioni di questo inizio. Su questa riga si manifestano i sogni dell’omonima parte, composti da riflessioni oniriche e tendenti sempre più al minimalismo, come in questi versi: “Svapora il fumo notturno / all’interno degli androni / per i sonnambuli della riviera / con gli zigomi scavati / e un profilo più affilato. / Il grigio dell’aria non si riempie / per i sogni incorporei / degli uomini di mare / schiusi come i gusci / delle vongole tra le reti”. Questi sogni assomigliano molto a quelli della tradizione francese, i cosiddetti récits en rêve, i quali fanno da ponte tra passato e presente, tra una storia più prettamente personale e una collettiva. Da buon poeta qual è, Moscè gioca inoltre sui silenzi che intercorrono tra gli esseri viventi, costruendo alcuni versi molto brevi, quasi alla maniera dell’haiku. Sono versi pieni, certamente ungarettiani, in cui la totalità dell’esistenza vi si riverbera all’interno, rimandando a quella pienezza e a quella vitalità a cui il titolo della silloge rimanda: “Il suono del silenzio / lo hai mai sentito alle cinque del mattino / quando il buio definisce anche i brusii? / Il mondo si annusa, alle cinque del mattino”. Nei Dialoghi con mio padre, invece, la prosa poetica dell’autore fabrianese tocca vette molto alte di complicità con il proprio caro, facendogli rivivere gli ultimi istanti attraverso la pagina scritta. È qui che tematiche più propriamente metafisiche trovano il loro fondamento, nei dialoghi serrati in cui la quotidianità del vecchio padre defunto si mescola con riflessioni profonde, come quelle che indagano l’esistenza di Dio: “Ascolti Dio? / No, non lo posso ascoltare. / È in cima alla montagna? / Non lo so. / Sii sincero. / Dio non si mostra. Chi ha orecchi oda. È un’esortazione che compare nell’Apocalisse. Dio è nutrimento. Sono a metà del cammino. Vederlo vorrebbe dire averlo assimilato. È qualcosa di inafferrabile”. Infine, La guarigione presenta il male come un gioco, qualcosa a cui non si deve pensare se si voglia uscirne indenni, anche qui utilizzando una poesia molto asciutta e diretta. Compare in poesia per la prima volta Giorgio Chinaglia che, con il suo esempio, dà forza e speranza all’autore costretto negli ospedali per quasi due anni, chiudendo il cerchio sulle due grandi passioni di Moscè: lo sport e la letteratura.

Riccardo Bravi

QUANDO LA POESIA SI CONFROTA NEI SIGNIFICANTI

SILVIA COMOGLIO

IL TEMPO AMMUTINATO – Partiture

JEAN FLAMINIEN

L’ESSERE CHE CONFIDA

(Book Editore)

Il binari sono anche due parallele percorse da un treno che ha un punto di partenza e uno di arrivo, sopra tutto quando il viaggio è inteso come percorso poetico. Dunque percorrere e attraversare linee di demarcazione cui spingersi, andare oltre in quello o quell’altro modo di farlo. Come fa l’arte nelle sue varietà, modi, stili e linguaggi nei molteplici movimenti che risentono di un tempo logico; luogo pulsionale ove i linguaggi si traducono non senza visionarietà. Ma e la poesia dove abita? Come tutte le arti in un luogo dove una linea si divide in molteplici parallele: quelle dell’arte visiva, della musica, quella letteraria, immaginando dei metodi che già conosciamo: lo sperimentalismo come “ammutinamento” contrariamente ai canoni solitamente “imposti” dagli alti comandi istituzionali della scolastica. Due esempi a confronto: “il tempo ammutinato – Partiture” di Silvia Comoglio e quello apparentemente più aulico di Jan Flaminien in “L’essere che confida” ambedue per i tipi di Book Editore (Riva del Po – Fe), editore che si distingue (come pochi altri) dalle tante, troppe “miserabili italiane”, dove i contenuti contano poco quanto contano interessi altri spesso manovrati dai così detti poeti “laureati” in tornacontologia. Non era Toni Negri il cattivo maestro. Odo una eco famigliare: “ma lo sperimentalismo non si fa capire!”. Risposta a quelli ciechi e sordi: “se non ci fosse, non sarebbero esistiti i Dante, i Leopardi o gli Ungaretti, i Porta, se si preferisce”. Occorre provare a cogliere i significanti come quello dei bei campi arati pronti alla semina, ad esempio, sembrano consigliare la Comoglio e Flaminien quando hanno composto le loro “sinfonie”. Con pazienza e lettura (che arricchiscono la propria cultura), gli enigmi si sciolgono. Sembra così interrogarsi Silvia Comoglio in: “ma, fiorisce dunque la parola/ in specchiata ombra immedicata?” (…) è un dio allora a tinnare di bocca/ in ombre di barbe pure di vita?” se: “i-mmorrale proclamo te/  nel tempo ammú-tinato”, si risponde filosofando teo/retica/mente. Più immediato e spontaneo è il guascone Jean Flaminien nelle complicazioni di un’insana geopolitica (rammentando l’elaborazione teorica dello psicoanalista marsigliese Roland Gori che da un decennio studia questi fenomeni responsabili dei disastri economici e delle guerre nel mondo): “Scuotersi ogni mattina come un cane,/ ritrovarlo nella propria vita,/ partecipare al suo entusiasmo./ Alleggerirsi al fardello dell’incertezza/ che grava sui nostri comportamenti:/ è la sottomissione delle cose che muta la nostra identità,/ turbando la nostra felicità, (…)”. Uno degli esergo di Baudelaire citati nella raccolta: ”Tutte queste cose attraverso me,/ e io penso attraverso loro”. E bella la citazione del mio povero amico Philippe Sollers (scomparso da poco – quello dello sperimentale “Paradis”): “Un’esperienza totalmente diversa del tempo, dello spazio, dell’ascoltare, del vedere, del sentire, del gioire” (da: “Fiducia dell’infinito”) È proprio dall’infinito, o meglio dal transfinito che i nostri due autori, apparentemente con scritture opposte, sembrano incontrarsi: due linguaggi squisitamente stranieri. Ma è proprio la stranianza che mette in scena una concatenazione di significanti da tradurre. La vicina libreria o internet (sob) permetterebbe di viaggiare con Silvia Comoglio e Jean Flaminien.    

Ite missa est.

 

Tiberio Crivellaro

FABIO DAINOTTI

L’ALBERGO DEI MORTI, Manni Editori

Sarò impopolare ai lettori di un Vannacci semianalfabeta e “littorio” se insisto sulla poesia, quella con la P maiuscola. E insisto su poetesse e poeti che cavalcano le onde di mari esistenziali tra angosce stagionali e gli itinerari della feconda mente viaggiando da guasconi. Mica è occasionale scrivere sulla raccolta “L’albergo dei morti” (Manni editori) di Fabio Dainotti, nostromo dei ricordi, O meglio, Capitano di lungo corso. Nota Nicola Miglino (nella postfazione): “La poesia nacque a fronte di un’infanzia difficile (di Fabio Dainotti), calato dal nord su una collina ginestre di un paese campano con promontorio sul mare”. Quel mare sottostante la collina dove un Fabio adolescente si lasciava sedurre da autori quali: Camillo Sbarbaro, dal Corazzini, e sopra tutto dall’immenticabile “Battello ebbro” di Rimbaud con le onde che lo “cullano” per ebrietà poetica. Perché certa poesia aulica ubriaca certi lettori seppur astemi, magari a introdurre i versi: “Porta il poeta come una condanna/ il volto che si volge lacrimando,/ sogna l’inesprimibile chimera,/ che lontana/ ama…/ O: “Verde smeraldo al largo, color sabbia/ verso la riva; mare, ti divide/ la striscia bianca che vieta il sorpasso”. Sogni, ma anche disincanti adolescenziali ne “L’albergo dei morti” con i molteplici affetti per i famigliari suoi e gli invitabili vitali innamoramenti. E con quel ritratto di Regina: “Da bambina salivi/ gli scalini di marmo/…cantando una tua canzoncina,/ con la sorellina/ Regina, detta Gina, litigavi,/…e poi a scuola./ Con la tua vesticciola/ e la cartella nuova./ Rimando con spartito musicale (…) Ora che stai distesa col bel viso cereo,/ che scompare nel teschio,/ non ti potrò vedere, ne parlare,/ mai più,/ perché sei morta per sempre”. Prosegue “l’archivio dei morti”, a Rosanna: “A volte penso alle sue guance esotiche/ smunte, da vietnamita/ come a cascate di luce o a strelitzie.// Avvolte/ di crisantemi immemore,/ Corro dietro al mio amore./ E il bell’esempio che potrebbe ricordare il Carducci in “Funere mersit acerbo”, il bimbo che: “,,,avanza a stento un bimbo/ sul clivo autunnale.(…) Mi chiedo dove andrà./ Andrà ancora per poco:/ lo spettano più in là/ i compagni di gioco.” E una bimba solinga: “Veste una seta azzurra che la brezza, entrando/ dalla finestra e dalle tende, agita./ Fuori una grande pace è nel giardino./ Sola una bimba gioca,.., tra ombra e sole./ Agli uccelletti, cui sue miche tira,/ parla; e s’adira.” Il mare, la eco dell’onda, culmina in qualcosa di a-lune attraverso i passati “anni di piombo” (battaglia perduta che bisognava vincere?), è “Cimitero marino”: “Mia madre, il generale,/ (…) ha prenotato ieri, una cappella/ al cimitero; non di campagna;/ rivierasco: costiera cilentana.// Laggiù son cresciuto,/ tra le colline e il mare,/ coi miei fratelli, con la mia cavalla/ (…) Laggiù i primi amici…// Le mie prime letture, i primi sogni,/ i primi amori, sfortunati, i primi/ versi…” Laconicamente meravigliosi. Al Maestro Fabio Dainotti, allora, va anche riconosciuto il dono dell’umiltà. Dote rarissima nei poeti di questo amaro tempo. Tempo becchino?

                                                                                                    Tiberio Crivellaro

Stasera metti gli occhiali da luna – Corrado Calabrò

Nota critica di Vincenzo Guarracino

În seara asta pune ochelarii de lună (“Stasera metti gli occhiali da luna”) recita il titolo dell’ultima svelta silloge di versi pubblicata da Corrado Calabrò in lingua romena Cosmopoli, Bacău 2023) nella traduzione di Eliza Macadan. “Metti gli occhiali alla luna”, contenuta in un testo dal titolo singolare vagamente pavesiano, Verrà l’amore e avrà le tue labbra, con un’immagine suggestiva, forse poco coerente con i toni sempre classicamente composti della più nota poesia di Calabrò ma qui adeguati alla situazione di appassionata contemplazione dell’Oggetto amoroso, della Visione, che permea molta sua poesia, assieme ai grandi scenari cosmici e marini. Quasi a voler dire che qui, in certi Momenti, l’immagine che si staglia dinanzi ai suoi occhi può produrre un affetto di abbacinamento, tale da superare, da “spegnere” ogni altra fonte luminosa, perfino quella complice e amorevole della Luna.  

È su tali direttrici, l’Amore, il Cosmo e il Mare, che si svolge da sempre tutta la sua poesia ma qui in questa silloge, in particolare in un testo, Déshabillée, prende il sopravvento la prima tematica e tutto sembra concentrarsi essenzialmente su un momento di passione, di essenziale abbandono a un sogno di reciproca attrazione e dedizione, sulla spinta di un desiderio di appagamento e completamento spirituale, incurante di ogni grossolanità e perbenismo, fermo restando che la figura femminile si attesta in tutto il suo fulgore fisico sulla scena di una natura complice e accogliente. In questo modo, soggetto e oggetto perseguono e realizzano, con casta impudicizia, un progetto che dai sensi si trasmette senza veli di ipocrisia all’animo come ricerca della loro “più intima bellezza”, come assieme al Catullo del c.68 sembra suggerire con ispirato calore il testo di Calabrò che gareggia col più appassionato Catullo del c.68. Con un invito: di essere incuranti del giudizio dei moralisti: “senza chiedersi in che stagione siamo / e che cosa ne pensa la gente” (Alla moviola)

Déshabillée

Ti svestirò di luna

sulla grande terrazza.

Ottenebrata sotto noi la notte

rapprende collosa gli umori

di corpi grevi che russano

con le finestre aperte.

Ti svestirò di luna

sulla grande terrazza

fino alla tua più intima bellezza

e ti denuderà così svestita,

mentre la luna impallidisce, l’alba.

VINCENZO GUARRACINO

Corrado Calabrò è nato a Reggio Calabria nel 1935 e vive a Roma. Ha pubblicato nel 1960 il suo primo libro di poesie, col titolo Prima attesa, cui  sono seguite poi numerose altre raccolte, tra le quali ricordiamo: Agavi in fiore (1976), Vuoto d’aria (1979), Presente anteriore (1981), Mittente sconosciuta (1984), Rosso d’Alicudi (1992), Lo stesso rischio (2000), Una vita per il suo verso (2002), La stella promessa (2009), Mi manca il mare (2013) e infine Quinta Dimensione (2021).

Ha pubblicato complessivamente in Italia 23 libri di poesie e 34 all’estero, in 20 lingue: sei  in spagnolo, cinque in svedese, cinque in inglese; due in francese, russo, ungherese, ucraino, portoghese, rumeno; uno in tedesco, serbo, greco, polacco, danese, ceco.

Per la sua opera letteraria gli è stata conferita la  laurea honoris causa dall’Università Mechnikov di Odessa nel 1997, dall’Università Vest Din di Timişoara nel 2000, dall’Università statale di Mariupol nel 2015. Nel 2016 l’Università Lusófona di Lisbona gli ha attribuito il Riconoscimento Damião de Góis.  Alla sua raccolta di poesie Acuérdate de Olvidarla (Ricordati di dimenticarla) è stato assegnato il Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015.

Nel luglio 2018 l’Unione Astronomica Internazionale, su proposta dell’Accademia delle Scienze di Kiev, ha dato all’ultimo asteroide scoperto il nome di Corrado Calabrò per avere rigenerato la poesia aprendola, come in sogno, alla scienza.

Silvia Comoglio – In acque di silenzio/ În ape de tăcere

Farfalla

essa   – è-già-la-luce

del dio  – dentro al campo ―

terra  – a bella vista –

in lenta  – spoliazione

1. I

sempre  – sei  eco di radice

del tempo  – senza volto

→ il prendere del sogno

                  l’albero stupendo

– a forma –  della vita,

questo-solo-chiasso

di un unico tuo punto,

nell’aria che ti parla

– a menzogna –  mai finita,

ad alta   notte che si squilla

nell’ultimo gridare, sull’ul-

timo crinale

1. II

e fusa

in ombre del tuo pianto

sei  questo  – solo iato,

i tempi  – sempre trasparenti –

che spezzano stasera

albe  – di montagne, e il volto 

che dice e poi ripete  – lettere che sono

orme  solo terse

nel luogo  – senza bosco

1. III

e  me di spalle

è il ponte di traverso,

il tendere sull’acqua

alberi e paesi

feroci e circolari, alberi caduti

in questo solo sogno

di un mondo  – dentro al mondo


2. I

→ “e il lume che qui soffia

nell’albero di vita

è questa sola bocca,

la terra già distesa

il cui moto, mi dicevi,

è quanto qui si pesa

dal buio  – al mio mattino,

in quieto solo corpo

lungo  – di sospiro

2. II

“e filo della voce

è vedersi  – di questa  sola terra,

in soffio che risplende

perfetto a desiderio ―

è il canto ripetuto

in tiepida materia,

in nomi  – tutti –  da capire,

alti e già disciolti

in echi solo a spazio

di vertici dell’aria

2. III

“e il pianto della  luce

è l’ultima memoria,

lo spargere sottile

di un ordine del mondo

che fece  – precise di deriva –

soglie  – dalle case! –

                    del tutto separate,

la notte   – felice –   di se stessa

Fluture

ea – e – deja – lumina

lui dumnezeu – în lagăr –

pământul – la vedere –

în lentă – prădare

1. I

întotdeauna – ești ecou de rădăcină

a timpului – fără chip

→ luarea visului

                  arborele minunat

– în forma – de viață,

acest – solitar – zgomot

al unui singur punct al tău

în aerul care îți vorbește

– mincinos – neîncetat,

în noaptea înaltă care sună

în ultimul strigăt, pe ul-

tima creastă

1. II

și topită

în umbrele plânsului tău

ești asta – doar hiatus,

vremurile – mereu transparente –

care frâng în seara asta

zări – de munți, și chipul 

care spune și apoi repetă – litere care sunt

urme doar limpezi

în locul – fără pădure

1. III

și eu cu spatele

este podul peste,

întinderea peste apă

copaci și sate

barbare și circulare, copaci căzuți

în acest vis singur

al unei lumi – în interiorul lumii


2. I

→ “și lumina care suflă aici

în copacul de viață

e această singură gură,

pământul deja întins

a cărui mișcare, mi-ai spus

e ceea ce aici se cântărește

din întuneric – la dimineața mea

în trup singur liniștit 

lung – de suspine

2. II

“și fir de voce

e să te vezi – din acest pământ singur,

în respirație care strălucește

desăvârșit la dorință –

e cântecul repetat

în materie caldă,

în nume – toate – de înțeles,

înalte și deja dizolvate

în ecouri doar în spațiu

de vârfuri de aer

2. III

“și plânsul luminii

e ultima memorie,

împrăștierea subțire

a unei ordini a lumii

care a făcut – precise de derivă –

praguri – din case!

                    complet separate,

noaptea – fericită – de ea însăși

Silvia Comoglio, nata nel 1969, laureata in filosofia, ha al suo attivo numerose raccolte poetiche e vari riconoscimenti di critica. Tra i libri pubblicati  si ricordano Ervinca, il libro di esordio, Bubo bubo, Via Crucis, Il vogatore, scacciamosche (nugae) e Afasia.

Silvia Comoglio, născută în 1969, licențiată în filosofie, are la activ numeroase volume de poezie și diferite recunoașteri din partea criticii. Printre cărțile publicate se numără Ervinca, cartea sa de debut, Bubo bubo, Via Crucis, Il vogatore, scacciamosche (nugae) și Afasia.

VIVETTA VALACCA – Marine

RICORDO DI UN’AMICA SCOMPARSA ALL’INIZIO DELLA PANDEMIA, ATTRAVERSO IL SUO ULTIMO SCRITTO

MARINE

Nell’illimite

dell’orizzonte

porte schiuse sull’oltre

L’eterno

ha lo sguardo familiare

dell’azzurro del mare

(inedito)

DA TANTA / PARTE DELL’ULTIMO ORIZZONTE – C’è un “orizzonte” e c’è il “mare”, come finestra spalancata sull’”oltre”, sull’”eterno”: un brivido, un bagliore, che la parola poetica seconda con religiosa compostezza nel frammento. È su questo paesaggio che Vivetta Valacca si sporge nel suo testo per lasciarsi prendere e trasportare nell’”illimite”, che la pone in contatto diretto con il Mistero, con la visione dell’Infinito, in cui l’anima si immerge come in una dimensione “familiare” ed assoluta, essenziale. (Vincenzo Guarracino)

Vivetta Valacca, saggista e poeta del mito, ha pubblicato con l’editore Campanotto la trilogia poetica di argomento omerico Il mare dai mille occhi (2006), Lo specchio del mondo (2006) e La danza delle onde (2007). Sintesi significative di queste opere sono state pubblicata su diverse antologie quali Altramarea, poesia come cosa viva, a cura di Angelo Tonelli, Le avventure della bellezza e Chi ha paura della bellezza? a cura di Tomaso Kemeny e riviste fra le quali la tedesca Matrix Nr 2/2007 (8). Dall’incontro con il poeta tedesco DieterSchlesak, nel 2006, è nata la silloge La luce dell’anima, (2011) e il più recente Parafrasi d’amore (Book Editore, 2019).

OTILIA ŢEPOSU – La lezione del giorno

Oggi,
la neve odora

come quella dei lupi di sera.
Adesso lo so
gli anni degli dei non mi raggiungeranno più.
Mi è estraneo anche quest’attimo.
Sono deserta
come il testimone albero,
dietro il quale si nasconde la vittima dal cacciatore,
che, per evitarlo,
la copre di ombre e
venticelli primaverili.

Faccio sempre più fatica a capire la lezione del giorno
conosco bene tutti i momenti dell’argomento,
anche se non capisco più l’intrigo e la conclusione.
La neve mi copre con una bara di fiocchi,
sono ancora padrona di un delta ghiacciato
dove sto in mezzo e conto le ore,
Quelle di ieri.

(trad. E. Macadan)

È da una condizione di solitudine e dolore, da un “delta ghiacciato”, che Otilia Ţeposu cerca un’uscita, la sua salvezza, attraverso la “parola”: una strada “solo in andata”, per dire in filigrana un bisogno disperato e inudibile, il bisogno (e il sogno) di sfuggire all’”ombra”, all’assenza di luce, alla “neve”, a partire da un passato di perdite e sconfitte che l’attanaglia, sì, ma che le dona anche sguardi taglienti e luminosi, versi come lame che forzano il silenzio, che cercano un varco per penetrare nel cuore di un ascolto impossibile. È da qui, da questo habitat di “freddo” enorme e insopportabile, che Otilia lancia con vigile ma drammatica dolcezza la sua richiesta, la sua domanda di amore. (V. Guarracino)

Otilia Ţeposu – nata nel 1958 a Cavnic – Maramures (Romania), studi artistici e filologici a Cluj Napoca e Bucarest. Esordisce in pubblicistica nel 1978, poi insegna letteratura universale a Bucarest fino al 1998, quando inizia il lavoro presso una testata giornalistica nella capitale romena. Otilia Ţeposu è nota per i suoi reportages pubblicati negli ultimi due decenni sul settimanale romeno “Formula As”. Il suo primo libro di racconti Druşca è uscito nel 2017. Nel 2019, presso EdituraEikon di Bucarest, è stata pubblicata la sua prima raccolta di poesie intitolata L’aria dalle ossa, successivamente tradotto ed edito anche in lingua italiana da Puntoacapo nel 2020.

DEL MIO RITORNO…

di Enrico Brambilla Arosio

Se passi di lì nelle tue rotte estive

dove il piagnisteo dei passeri

tede i mondi rami del noce antico

saluta alla svolta il casolare cadente

camuffando la voce e di’:

“Son io, eccomi di nuovo qui…”

in modo che un singhiozzo

sorprenda i fantasmi che v’abitano,

di me, del mio ritorno quietamente illusi.

Fa’ conto che ancora stia la chiave sotto lo zerbino

e se ti molce un desiderio di sosta

– solo un attimo, giusto il tempo

per finire quel sorso di posca lasciato nel bicchiere

o raccogliere in palmo le lacrime d’un pianto

ormai inaridito – spalanca piano le ante che ancora serbano

le quiete stanze di quand’ero dolente bambino.

Rimani, dunque, seppure per poco

e nel silenzio ascolta il ronzio della mosca o il sussurro

che devoto al Santissimo sopra il lumino finto

riecheggia fioco:

“Mane nobiscum, Domine,

se non altro per l’ultima posta d’un Rosario

che senza fede e muto

rigiro solitario tra le dita.”

Una sorta di carducciano ritorno ai “fantasmi” e ai luoghi di un’infanzia favolosa, con tutto il loro carico di ricordi e rimpianti: è questo che leggiamo nel testo di Enrico Brambilla Arosio, in cui a colpire è quell’”ormai” del “pianto inaridito”, quasi a dire che il “dolente bambino” di un tempo serba, sì, “lacrime” e ferite del passato nel suo bagaglio di memoria ma ormai si è rassegnato al loro agrore e sapore, conservandone e sublimandone il ricordo come scaglie luminose ed energetiche, come prezioso talismano per il suo futuro, mentre “fioco” lascia risuonare un’invocazione antica e commovente di aiuto. (Vincenzo Guarracino)

Enrico Brambilla, nom de plume “Arosio” per devozione alla memoria materna, è nato in Brianza nel 1949 ed è vissuto ad Almenno San Bartolomeo (BG). Presente in varie riviste e vincitore di numerosi concorsi letterari ha al suo attivo numerosi romanzi di vario genere pubblicati per i tipi di Mondadori, Moby Dick, Pequod, Il Fauno etc. etc. Misantropo, pessimista ad oltranza, nonché intollerante d’ogni ingerenza, non ama essere disturbato, fossero anche per manifestazione di benevolenza.

Paolo Fabrizio Iacuzzi, Consegnati al silenzio, Bompiani 2020 – Recensione di Vincenzo Guarracino

Un enigma che fa paura: il MALE SENZA NOME, in un libro di Paolo Fabrizio Iacuzzi

 

Un libro nutrito di vita, laddove la vita balla pericolosamente su un crinale di malattia e di morte: Consegnati al silenzio. Ballata del bizzarro unico male è questo, sesto capitolo in sette quadri di una saga, piena di vita e insieme di dolore e di morte, che Paolo Fabrizio Iacuzzi con determinazione va costruendo da anni, tra biografia e invenzione, a partire da Magnificat (1996), a Jacquerie (2000), a Patricidio (2005), a Rosso degli affetti (2008), a Pietra della pazzia (2016), fino a Folla delle vene (2018), inscrivendoli in un ambizioso organismo poematico tenuto ossessivamente insieme, oltre che dalla passione per le arti, plastiche e figurative, dal filo di un colore, rispettivamente il bianco, il blu, il giallo, il rosso, il rosa, fino al verde che intride e contraddistingue quest’ultimo tassello. Il tutto vissuto con un atteggiamento tra leggerezza e attesa, giocato com’è tra toni contrastanti, tra popolaresco e sublime, come suggerisce il genere.

La vita c’è perché c’è una galleria di persone, luoghi e situazioni reali, concrete, che coralmente si accampano sulla scena nell’hic et nunc di una evocazione senza tempo, ciascuno fissato con le stimmate del suo dramma, in un gioco di specchi e rifrazioni tra ieri e oggi: un “coro di misericordia” (“Le luci che si accorciano. Inesorabile potenza dell’istante. / Qui riuniti babbo nonno figlio nipote. Mozzi nomi / d’organi virus batteri. Tutti consegnati al silenzio. /…/ un coro di misericordia. Un punto di carità condivisa…”). È una folla che si trasforma in una genealogia, quella che appare nei versi di Iacuzzi, costituendosi come una sorta di “cronaca familiare”, se non di vero e proprio romanzo freudiano (“museo che di me affiora”, come veniva chiamato in un testo della raccolta precedente): una “vita a quadri”, insomma, lineare eppure spezzettata, a livello sia di fabula che di forma, dove individuale e collettivo, io e moltitudine, coincidono eppure sono intercambiabili, nel segno ciascuno di una propria “bizzarra” unicità che emerge dal tempo e si attesta nel teatro di una città, Pistoia, sintetizzata nello Spedale del Ceppo, luogo fondativo e terminale al tempo stesso, incidendovi la propria cifra, onomastica o biografica, in una sigla, come uno sfregio (quello che compare in Pietra della pazzia, nel nome di un antenato, Gio Batta, e in una data, 1816, su una colonna del portico dello Spedale), quasi a decretare e accampare su ogni cosa diritti e signoria, ma con un misto di “crudeltà” e “leggerezza”.

Ma c’è anche, al tempo stesso, incombente, non dissimulato, fin dal sintagma del sottotitolo, il segno subdolo del suo sfacimento, un Male che “bizzarro” s’incista nelle pieghe e nel silenzio del corpo o negli oscuri ambulacri tra mente e cuore, come “virus annidati fra un organo / e l’altro”, affermando il diritto di farsi luce e riconoscersi attraverso gli indizi della fisiologia, dal “rumore del sangue” non meno che  da “una traccia” (“di profumo” o ”di seme”): un silenzio da ascoltare come un “mistero”, un enigma che fa paura (“Hiv”) e reclama di essere riconosciuto e alla cui decifrazione l’autore si presta quasi a voler ricostruire per suo tramite quella che lui chiama la propria stessa “autobiopsia”.

È così che nel segno livido del Male, tra “il tempo della peste” e “la peste in tempo”, lo Spedale da luogo concreto e reale diventa il luogo-simbolo, universo concentrazionario, tramutandosi per virtù di poesia in occasione per leggere, attraverso i tasselli di cui il testo si compone, incubi e fantasmi che agitano vita e sentimenti di un individuo, di “Iac che da sempre malato” si è sentito “escluso dal mondo”,  dando modo alla scrittura di saldare un debito col suo passato accendendo, come si dice in conclusione del testo introduttivo, “speranze nel cuore”.

(di Vincenzo Guarracino)

 

Paolo Fabrizio Iacuzzi

CONSEGNATI AL SILENZIO.

BALLATA DEL BIZZARRO UNICO MALE

Bompiani, Milano 2020